Lambiase: “Rimettere la psicoterapia al centro del processo terapeutico per la disforia di genere”
Ringraziamo il Dr. Lambiase per averci autorizzato a pubblicare la memoria che ha depositato presso la XII Commissione Affari Sociali, a seguito audizione resa in data 4 aprile 2024 sul tema dell’approccio alla disforia di genere.
Chi è il Dott. Emiliano Lambiase?
Psicologo – Psicoterapeuta
Coordinatore Istituto di Terapia Cognitivo Interpersonale (ITCI)
Responsabile servizio per l’identità di genere (ITCI)
Insegna nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo Interpersonale
Si occupa di ipersessualità, parafilie e problematiche che riguardano l’integrazione tra affettività e sessualità dall’inizio della sua attività professionale (nel 2000) e nel tempo ha progressivamente iniziato a dedicarsi anche a tematiche inerenti all’orientamento sessuale e l’identità di genere. Oltre all’attività clinica si dedica all’integrazione tra i modelli cognitivi costruttivisti e quello interpersonale di Lorna Benjamin.
Premessa
Nei Paesi occidentali, il modello affermativo si è recentemente diffuso come il principale approccio di cura per la disforia di genere[1]. Negli ultimi anni, però, sono state sollevate varie criticità rispetto a tale modello o al modo con il quale viene messo in atto[2], portando molte Nazioni ad adottare linee guida più attente e caute, in particolare per i minori (ma non solo), rimettendo la psicoterapia al centro del processo valutativo e d’intervento[3].
Riflessioni e proposte
Al fine di realizzare questo processo anche in Italia, condivido alcune riflessioni che ho maturato in base alla mia esperienza clinica, al confronto con colleghi e studiando la letteratura internazionale e che, rispetto al modello affermativo, ridanno alla psicoterapia un ruolo più centrale.
1. Transizione sociale e bloccanti della pubertà non sono decisioni semplici e scontate.
Per prima cosa, anche decisioni come la transizione sociale e l’inizio dei bloccanti della pubertà, sebbene da molti considerate esplorative, vanno prese molto attentamente. Alcune ricerche sottolineano che chi inizia la transizione sociale tendenzialmente mantiene un’identità transgender (Olson et al., 2022) e chi assume bloccanti della pubertà tendenzialmente prosegue con la terapia ormonale (de Vries et al., 2011; Wiepjes et al., 2018; Brik et al., 2020; Polly Carmichael et al., 2021; van der Loos, et al., 2023). Quindi, in entrambi i casi, è possibile che venga ostacolata la fisiologica desistenza dell’incongruenza di genere che avviene nella maggior parte dei ragazzi[4]. Inoltre, in entrambi i casi, non sembra che applicare tali strategie abbia portato a tutti i benefici attesi e, anzi, a volte, conseguenze negative[5]. Per questi motivi, riguardo la transizione sociale, anche Cass (2022), nella sua rassegna della letteratura richiesta dal National Health Service inglese, afferma che, sebbene non possa essere considerata un intervento medico, non è nemmeno un atto neutro e quindi va iniziata in seguito a un adeguato processo di consenso informato. Invece, riguardo i bloccanti della pubertà, in due recenti articoli, gli Autori affermano che l’uso di questi farmaci non sia semplicemente un’estensione della fase di valutazione, ma potenzialmente già l’inizio di una transizione[6].
In conclusione, in merito alla stesura di linee guida italiane per la disforia di genere, anche decisioni inerenti alla transizione sociale e all’utilizzo dei bloccanti della pubertà andrebbero prese valutandole anche in un percorso psicoterapeutico, non solo per deciderne l’attivazione, ma anche per le modalità più funzionali.
2. Il momento in cui eventualmente iniziare i bloccanti della pubertà non è solo una questione di tempo, ma di relazione con gli altri e con sé, e della consapevolezza che la persona ne ha.
In secondo luogo, per quanto riguarda nello specifico i bloccanti della pubertà[7], è importante ricordare che alcune Nazioni, dopo aver analizzato la letteratura scientifica, ne hanno limitato l’uso solo a determinate condizioni e all’interno di protocolli di ricerca (vedi nota 4). Da questa analisi della letteratura sono emersi, senza possibilità di risposte chiare e definitive, sia effetti positivi che negativi e, inoltre, varie ricerche non hanno mostrato una chiara superiorità dell’intervento medico rispetto alla psicoterapia, oppure non hanno distinto la psicoterapia dal trattamento medico (vedi la seconda parte della nota 6). Inoltre, la maggior parte della ricerca è risultata concettualmente o metodologicamente molto carente (Zepf, 2024). Infine, non abbiamo ancora ricerche che forniscano risposte riguardo al possibile disallineamento tra una parte dello sviluppo che viene sospesa dai bloccanti e poi fatta ripartire tempo dopo, e altre che proseguono la loro maturazione, sia nella persona (ad esempio quella cognitiva e affettiva) che nella relazione con i pari (che nel frattempo proseguono con la loro crescita).
Vorrei però soffermarmi su un’incongruenza delle linee guida del modello affermativo. Nell’ultima versione degli Standards of Care (Coleman et al., 2022) della World Professional Association for Transgender Health (cioè le linee guida di riferimento per la terapia affermativa scritte dalla principale associazione che la promuove), c’è scritto che “L’uso di farmaci che bloccano la pubertà […] non è raccomandato fino a quando i bambini non hanno raggiunto almeno lo stadio Tanner 2 della pubertà perché l’esperienza della pubertà fisica può essere fondamentale per l’ulteriore sviluppo dell’identità di genere per alcuni adolescenti TGD (Steensma et al., 2011)“. Il protocollo che viene poi consigliato, però, è mirato a bloccare la pubertà subito dopo l’avvio dello stadio Tanner 2[8], impedendo la sperimentazione di quegli elementi costitutivi che potrebbero favorire la desistenza[9], con il rischio di incrementare il numero di ragazzi che poiprocederanno con il percorso di transizione. Alcune ricerche sulla detransizione, infatti, sottolineano, come motivazione rilevante, cambiamenti dell’identità di genere dovuti a rielaborazioni interne[10].
In conclusione, in merito alla stesura di linee guida italiane per la disforia di genere, la psicoterapia dovrebbe essere considerata la prima e preferenziale opzione terapeutica, mentre l’eventuale assunzione di bloccanti della pubertà dovrebbe essere vincolata a un precedente periodo di psicoterapia senza risultati positivi, all’inserimento in protocolli di ricerca controllati e con determinati criteri di selezione[11] e protratta per un periodo di tempo programmato. Inoltre, non andrebbe legata solo all’inizio della fase Tanner 2 di sviluppo puberale, ma dovrebbe anche considerare il processo di sperimentazione affettiva e sessuale (come affermano appunto gli autori dell’articolo citato dagli Standars of Care), vissuto con sé e con gli altri, e questo andrebbe esplorato, osservato ed elaborato all’interno di un percorso psicoterapeutico, e ciò potrebbe portare ad attendere anche oltre[12].
3. Il rischio suicidario, sebbene sembri essere molto basso, va seriamente preso in considerazione, e questo vuol dire non fare affidamento su scelte automatiche ma compiere valutazioni personalizzate in funzione della personalità e delle eventuali comorbilità, tenendo in considerazione gli effetti positivi e negativi, nel qui ed ora e a lungo termine.
Terzo punto. Molto spesso si sottolinea la necessità di procedere col percorso di transizione al fine di prevenire il rischio suicidario. D’altro canto, le ricerche attualmente non sono concordi nel ritenere che sia elevato al punto da considerarlo un’emergenza specifica della disforia di genere; anzi, secondo alcune ricerche sembra essere molto basso (Biggs, 2022; Ruuska et al., 2024), di poco più alto rispetto a quello della popolazione psichiatrica (de Graaf et al., 2020), e almeno in uno studio è emerso anche un aumento del rischio dopo gli interventi di chirurgia affermativa genitale (Dallas et al., 2021). Inoltre, sembra spiegato in buona parte proprio dalle comorbilità psichiatriche e migliorare quando queste vengono trattate (Ruuska et al., 2024).
Inoltre, proprio perché il rischio suicidario va tenuto in considerazione anche quando bassissimo, è necessario valutare molto attentamente le scelte terapeutiche che vengono effettuate, pesandone sia gli effetti a breve che a lungo termine, riguardo la salute psicologica e fisica generali dei pazienti, cercando di non assecondare dinamiche psicologiche insite nei disturbi psichiatrici in comorbilità. La gestione del rischio suicidario in psicoterapia, infatti, prevede scelte complesse e non fondate automaticamente sulle emozioni del paziente e la paura delle altre persone coinvolte.
In conclusione, in merito alla stesura di linee guida italiane per la disforia di genere, il rischio suicidario non andrebbe trattato con scelte focalizzate solo su soluzioni nel qui ed ora ma – all’interno di un percorso di psicoterapia che tenga conto non solo della disforia di genere ma anche della personalità e delle comorbilità del paziente – andrebbero fatte scelte personalizzate che sappiano distinguere e mettere in relazione i desideri e i bisogni della persona[13].
4. La diagnosi di disforia di genere non è la fine di un processo di valutazione ma il suo inizio, in quanto le scelte che verranno non sono automatiche ma derivano da un complesso processo di esplorazione e valutazione.
Quarto e ultimo punto. Molte persone sono preoccupate per il fatto che la diagnosi di disforia di genere porti automaticamente all’inizio di un percorso di transizione sessuale.
Personalmente, ritengo molto critico considerare tale diagnosi l’equivalente di una decisione terapeutica. Questo perché ci sono vari tipi di disforia di genere, con o senza comorbilità, non sappiamo se e quando il paziente desisterà (soprattutto se molto giovane), non conosciamo l’origine dell’incongruenza di genere, inoltre non è scontato che la soluzione migliore sia la transizione sessuale[14]. Quindi, come per ogni altra problematica che affrontiamo in terapia, svolta la diagnosi, dobbiamo valutare quale sia il percorso migliore che tenga conto di tutte le variabili in gioco in quella persona specifica. La risposta, ovviamente, non la daremo noi da soli ma insieme al paziente, aiutandolo ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza necessarie per prendere decisioni importanti per la sua vita.
In conclusione, in merito alla stesura di linee guida italiane per la disforia di genere, la diagnosi di disforia – insieme alla valutazione delle eventuali comorbilità e delle caratteristiche di personalità del soggetto – non dovrebbe corrispondere con la fine di un percorso di valutazione e l’inizio di un percorso affermativo di transizione sessuale, ma con l’inizio di un percorso di psicoterapia nel quale aiutare il paziente a trovare la strada migliore per sé, che potrebbe coincidere o meno con i desideri del momento, e che potrebbe anche variare nel corso del tempo.
[1] Il modello affermativo si è recentemente imposto come il principale approccio clinico nei Paesi occidentali. Nel tempo, la sua diffusione si è accompagnata ad un progressivo abbassamento delle fasce d’età nelle quali applicare le varie fasi del trattamento (ad esempio i bloccanti della pubertà e gli ormoni mascolinizzanti o femminilizzanti, detti cross-sex), ritenendo che tali interventi portino sostanziali benefici con un basso rischio di conseguenze avverse. Inoltre, la psicoterapia è progressivamente passata in secondo piano rispetto alle fasi della transizione sociale e medica, venendo ritenuta sostanzialmente un accompagnamento al percorso di transizione. Infine, la diagnosi non prevede più limiti per quanto riguarda l’accesso al percorso di transizione, che può essere iniziato a prescindere da eventuali disturbi in comorbilità. Il modello affermativo ha fondato la garanzia della sua efficacia clinica sui risultati ottenuti dal cosiddetto modello olandese ma queste differenze lo hanno sempre più distanziato da quest’ultimo approccio, impedendo così di poter equiparare i risultati ottenuti (Abbruzzese, Levine; Mason, 2023).
[2] Innanzitutto, negli ultimi vent’anni, ma con un’impennata negli ultimi dieci, si è verificato un progressivo abbassamento dell’età di insorgenza della disforia di genere (Sun, et al., 2023), un notevole aumento dei casi (SBU, 2019) soprattutto in età adolescenziale (Zucker, et al., 2008) e in particolare nelle ragazze (Zucker, 2019; Thompson, et al., 2022; Cass, 2022), e per ora tutti questi cambiamenti non hanno ancora avuto un’adeguata spiegazione (SBU, 2019; Cass, 2022). Queste variazioni nella tipologia e nella numerosità del campione, e nei tempi d’insorgenza, hanno portato la popolazione di soggetti con disforia di genere a non corrispondere più a quella sulla quale erano stati svolti gli studi efficacia del modello olandese sui quali si è basato anche il modello affermativo per attestare la propria efficacia (Zucker, 2019; Abbruzzese, Levine; Mason, 2023; Biggs, 2023). Quindi non solo il modello affermativo si è distanziato dal modello olandese, ma anche la tipologia di pazienti è cambiata. Inoltre, si è verificato un esponenziale incremento di visibilità delle persone che, dopo aver avviato o addirittura concluso il percorso di transizione, rimpiangono la decisione presa (regret) e decidono di tornare sui loro passi (detransition), mettendo quindi in discussione l’efficacia generalizzata del modello affermativo. In questi ultimi anni, sulla detransizione si sono moltiplicati documentari, notizie su casi di nei quali il paziente detransitioner ha denunciato la clinica presso la quale aveva svolto la transizione, associazioni/comunità online, articoli scientifici (ad es. Cohn, 2023; MacKinnon, et al., 2022; MacKinnon, Expósito-Campos, Gould, 2023; Pazos Guerra, et al., 2020; Roberts, et al., 2022; Vandenbussche, 2022; Jorgensen; 2022; Turban, 2021; Expósito-Campos, 2021; Hall, Mitchell, Sachdeva, 2021; Littman, 2021; Marchiano, 2021; D’Angelo, 2020; Entwistle, 2020; Levine, 2018; SBU, 2023; MacKinnon et al., 2023a, 2023b; Littman et al., 2023). Infine, l’accumularsi di dati e il miglioramento della metodologia di ricerca e di analisi statistica ha reso possibile svolgere nuove ricerche più affidabili e analizzare i dati delle precedenti (Abbruzzese, Levine; Mason, 2023; Danna, 2021; McPherson, Freedman, 2023). Nel tempo si sono anche accumulati studi sui quali poter svolgere rassegne della letteratura direttamente realizzate o richieste a livello governativo – come nel Regno Unito (Cass, 2022; NICE, 2020a, 2020b), in Svezia (National Board of Health and Welfare, 2023a, 2023b; SBU, 2023), in Finlandia (PALKO, 2020), in Norvegia (Ukom, 2023) e Florida (Brignardello-Petersen, Wiercioch, 2022; Cantor, 2022; Van Meter, 2022; Lappert, 2022; Donovan, 2022; Florida Medicaid, 2022) – oppure svolte indipendentemente da professionisti o enti specializzati (Dahlen, et al., 2021; Haupt, et al., 2020; Abbruzzese, Levine, Mason, 2023; Scalia, et al., 2021; Thompson, et al., 2022a, 2022b; Thompson, et al., 2023; Lane, 2023). Recentemente sono state anche pubblicate online conversazioni e file interni alla World Professional Association for Transgender Health (2024).
[3] La Finlandia è stata tra i primi Paesi ad adottare il protocollo olandese per la medicina di genere pediatrica. Nel 2015, tuttavia, gli specialisti di genere finlandesi hanno notato che la maggior parte dei loro pazienti non soddisfaceva i requisiti di ammissibilità relativamente severi del protocollo olandese per i trattamenti farmacologici. Nel 2020, il Consiglio nazionale per le scelte nell’assistenza sanitaria (COHERE) ha pubblicato delle nuove raccomandazioni nei quali ha sottolineato che gli interventi ormonali per gli adolescenti hanno una certezza “molto bassa”. Ciò ha portato all’imposizione di restrizioni sull’accesso agli ormoni e ha richiesto che tali interventi siano ancora considerati in una fase “sperimentale”. Si raccomanda inoltre che «il trattamento di prima linea per la disforia di genere sia il supporto psicosociale e, se necessario, la psicoterapia e il trattamento di possibili disturbi psichiatrici in comorbilità». Nel 2022, anche le revisioni sistematiche del Comitato svedese per la valutazione medica e sociale (SBU) hanno rilevato che le prove dei benefici degli ormoni sulla salute mentale, compreso lo studio olandese, erano molto incerte. «Le basi scientifiche identificate riguardo al trattamento ormonale di bambini e adolescenti con disforia di genere», conclude la SBU, «sono limitate e non è possibile trarre conclusioni con affidabilità moderata o alta. Per la maggior parte dei risultati esaminati in questo rapporto, le prove sono insufficienti e non è possibile trarre conclusioni». A seguito di questa revisione della letteratura, sempre nel 2022 il National Board of Health and Welfare del governo svedese ha affermato che i rischi di un trattamento di soppressione della pubertà e di affermazione ormonale di genere attualmente superano i possibili benefici. A tal fine, afferma che i trattamenti farmacologici (bloccanti e cross-sex) per i minori dovrebbero essere forniti in un contesto di ricerca (al fine di avere una maggiore conoscenza finalizzata a un’assistenza efficace e sicura) e, in attesa che vengano definiti i criteri, solo in casi eccezionali e in conformità con delle raccomandazioni e i criteri aggiornati in base allo stato dell’arte delle conoscenze (al fine di minimizzare il rischio in un contesto caratterizzato da conoscenze incerte). Nel marzo 2023, anche la Norvegia, sulla scia di una propria analisi delle rassegne pubblicate fino ad allora, ha raccomandato che i trattamenti sanitari che affermano il genere (come i bloccanti della pubertà) vengano definiti come “sperimentali”. Nel 2020, in seguito agli scandali che avevano coinvolto il Gender Identity Development Service (GIDS), nonché al caso giudiziario e mediatico della detransitioner Keira Bell (Halasz, Amos, 2023), il National Health Service del Regno Unito ha commissionato una rassegna indipendente della letteratura per formulare raccomandazioni sui servizi forniti a bambini e giovani che stanno esplorando la propria identità di genere o sperimentando incongruenze di genere. Da questo report, di cui nel 2022 sono stati pubblicati i risultati e le conclusioni intermedie, sono emersi non solo i gravi limiti delle prove scientifiche a favore del modello affermativo, ma anche la tendenza nel GIDS ad applicarlo in modo automatico e sbrigativo, sostanzialmente assecondando le richieste dei pazienti. Presa visione di questo report, nel 2023 il National Health Service ha affermato che le evidenze internazionali a supporto del processo decisionale clinico sono scarse e inconcludenti. È recentissima la decisione del NHS del Regno Unito di vietare l’utilizzo dei bloccanti della pubertà al di fuori di progetti di ricerca o secondariamente alla decisione di un’equipe multidisciplinare a livello nazionale (NHS, 2024a, 2024b). Accanto a questi Stati che hanno svolto analisi della letteratura dalle quali hanno tratto conclusioni ed elaborato linee guida, ce ne sono altri, come la Francia (il 25 febbraio 2022) e, più recentemente, la Danimarca (il 3 luglio 2023), che hanno avanzato timori e cautele riguardo l’approccio affermativo e i suoi esiti, affermando la necessità di avere un approccio più cauto nei confronti della transizione di genere.
[4] Analizzando i dati di varie ricerche i tassi di desistenza dei soggetti con disforia di genere a insorgenza nell’infanzia vanno da alti a molto alti, fin quasi alla totalità del campione in alcune ricerche. In Wallien e Cohen-Kettenis (2008), il tasso di persistenza per i maschi biologici era del 20,3% (70,7% di desistenza) e per le femmine del 50%. In Steensma et al. (2011), le percentuali corrispondenti erano rispettivamente del 29,1% (70,9% di desistenza) e del 50,0%. Singh, Bradley e Zucker (2021) hanno riscontrato un tasso di persistenza del 12,2% (87,8% di desistenza). Lo studio di Green (1987) ha rilevato un tasso di persistenza del 2,2% (97,8% di desistenza). Nei primi due studi (modello olandese), il tasso di persistenza per le femmine biologiche era più alto rispetto a quello per i maschi biologici. Al contrario, nei secondi due studi (modello di Toronto), il tasso di persistenza era simile per le femmine e per i maschi biologici. Queste variazioni meritano esame e riflessione (Zucker, 2018). Non abbiamo invece informazioni chiare sulla desistenza nei casi di disforia di genere ad insorgenza nell’adolescenza, essendo un fenomeno la cui rapida crescita è molto recente.
[5] Per quanto riguarda la transizione sociale, ad oggi, la letteratura ha mostrato prove contrastanti riguardo i suoi effetti positivi. Nel complesso, non vi sono prove solide che la transizione sociale sia associata allo stato di salute mentale nel breve termine (Morandini et al., 2023). In aggiunta, in uno studio svolto da Sievert e colleghi (2021) è emerso che ad essere associato con lo stato di salute psicologica dopo la transizione sociale è il sostegno sociale fornito dai pari e dalla famiglia, indipendentemente dall’esplorazione di ulteriori possibilità di transizione di genere. Per quanto riguarda la disforia di genere con esordio in adolescenza, i resoconti dei genitori raccolti da Littman (2018) e Diaz e Bailey (2023) sembrano indicare una preoccupante tendenza al peggioramento della salute mentale dopo la transizione sociale. Questi dati vanno intesi come preliminari e nel contesto dei limiti dei relativi studi, ma sollevano la possibilità (da esplorare in ricerche più approfondite) che la transizione sociale possa avere, almeno in alcuni casi, effetti controproducenti o addirittura iatrogeni. Per quanto concerne i bloccanti della pubertà, ad oggi, diverse rassegne e valutazioni della letteratura hanno messo in dubbio i loro supposti effetti benefici (ad es. McPherson, Freedman, 2023; Jogensen, et al., 2022; Cohn, 2022, 2023; Block, 2023; Abbruzzese, Levine, Mason, 2023; Zepf et al., 2024; queste comprendono ormai anche un certo numero di studi svolti o commissionati a livello nazionale (Svezia: SBU, 2022a; Regno Unito: NICE, 2020a; Cass, 2022; Florida: Cantor, 2022; Brignardello-Peterson, Wiercioch, 2022). Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sebbene non si sia espressa espressamente sui bloccanti della pubertà, ha affermato che «[…] la base di prove per bambini e adolescenti è limitata e variabile per quanto riguarda i risultati a lungo termine dell’assistenza di affermazione di genere per bambini e adolescenti». Conseguentemente, non ha ritenuto opportuno elaborare delle linee guide per il percorso affermativo dei minori e adolescenti, ma lo farà solo per gli adulti. In uno studio recente, si è rilevato che in seguito all’inizio dei bloccanti della pubertà la salute mentale è peggiorata (15-34% dei casi) più spesso di quanto non migliorasse (9-20% dei casi) (McPherson, Freedman, 2023). È da notare che, come spesso accade in questo campo, si tratta di un piccolo campione, per cui i risultati vanno presi con molta cautela. Anche quando hanno evidenziato miglioramenti significativi nella salute mentale, le ricerche in quest’ambito non hanno mostrato una chiara superiorità dell’intervento medico rispetto alla psicoterapia, oppure non hanno distinto la psicoterapia dal trattamento medico, impedendo una chiara interpretazione dei risultati. In più, in questi studi esiste un elevato rischio di effetto placebo, amplificato dal fatto che gli esiti psicologici dei bloccanti vengono in genere misurati con scale di auto-valutazione (Biggs, 2020a). Un’altra conseguenza negativa è relativa allo stesso percorso di transizione, in quanto i bloccanti non permettono lo sviluppo completo dei genitali; per questo motivo i chirurghi hanno meno materiale sul quale poter lavorare, dovendo così ricorrere all’utilizzo di tessuti proveniente da altre parti del corpo (che a sua volta aumenta il rischio di complicanze ed esiti indesiderati) (van de Grift, et al., 2020; Clayton, 2023).
[6] Fisher e colleghi (2023) affermano che « […] il razionale del trattamento con GnRHa può essere considerato non solo un prolungamento della fase di valutazione, ma anche l’avvio di un percorso medico (anche se reversibile) di affermazione di genere, soprattutto nei Transgender and Gender Diverse Adolescents la cui pubertà è già avanzata». Allo stesso modo, Ristori e Fisher (2023), facendo riferimento all’articolo di van der Loos e colleghi (2023), affermano «Uno studio recente riporta che pochi individui (1,6%) hanno interrotto il GnRHa, mentre nella maggior parte dei casi (93%) gli adolescenti assumevano GnRHa successivamente ha iniziato gli ormoni Gender Affirming. Questi risultati potrebbero mettere in discussione l’uso di GnRHa come estensione della fase di valutazione e descrivere meglio questo trattamento come l’inizio di una transizione» (p. 1266).
[7] Per approfondire la storia dei bloccanti della pubertà nel modello che li ha proposti, quello olandese, consultare The Dutch Protocol for Juvenile Transsexuals: Origins and Evidence, di Biggs (2023).
[8] Nell’ultima versione degli Standards of Care (cioè le linee guida di riferimento per la terapia affermativa), l’ottava (Coleman, e., 2022), c’è scritto che “L’uso di farmaci che bloccano la pubertà […] non è raccomandato fino a quando i bambini non hanno raggiunto almeno lo stadio Tanner 2 della pubertà perché l’esperienza della pubertà fisica può essere fondamentale per l’ulteriore sviluppo dell’identità di genere per alcuni adolescenti TGD (Steensma et al., 2011)». Sempre negli Standard of Care, però, si suggerisce di usare i bloccanti della pubertà in questo modo: «Quando un bambino raggiunge un’età in cui normalmente inizia lo sviluppo puberale (tipicamente da 7-8 a 13 anni per chi ha le ovaie e da 9 a 14 anni per chi ha i testicoli), sarebbe opportuno sottoporre il bambino a screening più frequentemente, magari a intervalli di 4 mesi, per individuare segni di sviluppo puberale […]. Dato il ritmo tipico dello sviluppo puberale (3,5-4 anni per il completamento), sarebbe molto improbabile che si sviluppino cambiamenti puberali permanenti se si rimane nella pubertà solo per 4 mesi o meno. Pertanto, con un follow-up frequente, l’inizio della pubertà può essere facilmente rilevato prima che si verifichino cambiamenti fisici irreversibili e il GnRHa può essere avviato in quel momento con grande efficacia. […] É da notare che, dopo l’inizio del GnRHa, si verifica tipicamente una regressione di uno stadio di Tanner». In pratica, i bloccanti andrebbero somministrati in modo che la pubertà venga solo minimamente accennata, per poi regredire allo stato di sviluppo precedente. In questo modo decade la motivazione di base, a meno che dobbiamo immaginare che i ragazzi, immediatamente, appena iniziata la pubertà, si innamorino, provino attrazione sessuale, entrino in contatto con i cambiamenti del corpo e maturino una consapevolezza tale da permettergli di rielaborare la loro identità di genere. Il tutto in 4 mesi, altrimenti poi vengono somministrati i bloccanti. Questo è ancora più vero se consideriamo che, secondo gli Standards of Care, gli ormoni cross-sex possono essere somministrati anche in concomitanza con i bloccanti della pubertà: “Raccomandiamo agli operatori sanitari di prescrivere regimi di trattamento con ormoni sessuali come parte del trattamento di affermazione di genere negli adolescenti transgender idonei e con diversità di genere che siano almeno allo stadio Tanner 2, con il coinvolgimento dei genitori/tutori, a meno che il loro coinvolgimento non sia ritenuto dannoso o non necessario per l’adolescente». Dopo questa affermazione consigliano due regimi di somministrazione: uno in concomitanza con i bloccanti, a dosi più basse e con incrementi graduali, e uno successivo, con dosi già all’inizio più elevate. Queste ultime indicazioni, non solo fanno decadere la raccomandazione di attendere l’inizio della pubertà per farla sperimentare, ma anche quella di considerare l’utilizzo dei bloccanti come un periodo di pausa e di sperimentazione.
[9] Per quanto riguarda l’età media di desistenza, da una ricerca qualitativa di Steensma e collaboratori (2013) su 25 adolescenti (14 persisters e 11 desisters) è emerso come cruciale il periodo tra i 10 e i 13 anni di età. Entrambi i gruppi hanno affermato che i cambiamenti nel loro ambiente sociale, la femminilizzazione o mascolinizzazione prevista ed effettiva dei loro corpi e le prime esperienze di innamoramento e attrazione sessuale avevano influenzato i loro interessi e comportamenti legati al genere, i sentimenti di disagio di genere e l’identificazione di genere. Questo singolo dato di natura qualitativa va messo a confronto con le altre informazioni derivanti dalle ricerche in cui è stata studiata la desistenza. Confrontando i risultati, la prima valutazione è avvenuta in media tra i 7-9 anni (con un range dai 4 ai 12), l’età media dei campioni è stata di 26 anni e al momento del follow-up l’età è variata dai 13 ai 40 anni (cfr. Zucker, 2018; Singh, Bradley, Zucker, 2021). Secondo questi ultimi dati, con età media e di follow- up ben più elevate rispetto ai 10-13 anni individuati sa Steensma e collaboratori (2013), non è possibile escludere che la desistenza possa avvenire anche successivamente ai 10-13 anni.
[10] In particolare, l’ipotesi che la desistenza possa avvenire quando il percorso di transizione è già iniziato, è sostenuta da una recente ricerca svolta da Littman e collaboratori (2023) su 78 detransitioners e desisters (71 femmine e 7 maschi biologici). Nella loro indagine gli Autori hanno definito la “detransizione” in senso ristretto, includendo solo l’interruzione dell’uso di ormoni sessuali incrociati e/o il ricorso a un intervento chirurgico per invertire la precedente transizione di genere. Analizzando i tempi di insorgenza e di cessazione dell’identificazione come transgender è emerso che: l’età media della prima identificazione come transgender era di 17,12 anni, con un intervallo dai 6 ai 28 anni; il periodo di tempo di identificazione come transgender era stato in media di 5,35, con un intervallo dagli 1 ai 14 anni; infine, la cessazione dell’identificazione come transgender è avvenuta in media a 22,46, con un intervallo dai 15–32. Vediamo, quindi, che quando consideriamo all’interno dello stesso campione i desisters e i detransitioners, l’età di cessazione dell’identificazione come transgender sale fino a un’età media di poco più di 22 anni, ma fino a un’età massima di 32. Littman e colleghi (2023) hanno inoltre chiesto ai partecipanti di valutare l’importanza di 20 fattori alla base della cessazione della loro identificazione transgender. In ordine di rilevanza, le prime cinque motivazioni elencate sono state: processi autonomi di pensiero dei partecipanti; sentire che le cause della disforia di genere erano più complicate di quanto i partecipanti avessero precedentemente compreso; cambiamento della comprensione di “femminile” e “maschile” in un modo che ha permesso ai partecipanti di sentirsi più a loro agio con il loro sesso natale e di identificarsi con esso; sentire che la categoria “transgender” non gli calzava più; scoprire una specifica causa per la disforia di genere, come un trauma o una condizione di salute mentale. Come è possibile notare sono tutte motivazioni che riguardano un incremento di consapevolezza, e la prima motivazione esplicita chiaramente una rielaborazione autonoma della propria identità di genere e del rapporto col proprio corpo. Parliamo, quindi, di una detransizione conseguente a una desistenza dell’incongruenza di genere e non in funzione di pressioni esterne o di paure personali. Quella che Exposito-Campos (2021) definisce detransizione “core”.
[11] Nel documento Prendersi cura di bambini e adolescenti con disforia di genere. Supporto nazionale alle conoscenze con raccomandazioni per i professionisti e i responsabili delle decisioni, redatto dal Consiglio nazionale degli affari sociali e della sanità della Svezia (2022), in seguito alla rassegna della letteratura dell’Agenzia svedese per la valutazione delle tecnologie sanitarie e la valutazione dei servizi sociali, vengono fornite le seguenti indicazioni al fine della somministrazione dei bloccanti della pubertà in questa fascia d’età: «sono soddisfatte le condizioni di base per un’indagine diagnostica approfondita, una decisione multidisciplinare, il consenso dei genitori/tutori, la fornitura di informazioni e la valutazione dei benefici/rischi attesi; l’adolescente ha una situazione psicosociale stabile e non ci sono fattori che offuscano la certezza delle valutazioni cliniche (disabilità neuropsichiatrica o intellettuale, problemi psichiatrici non trattati, compreso il rischio di suicidio e di traumatizzazione, uso di sostanze); l’incongruenza di genere è presente fin dall’infanzia e l’identità di genere è stabile nel tempo […]; l’inizio e il decorso della pubertà hanno portato con sé una chiara sofferenza; i criteri diagnostici del DSM-5 per la disforia di genere (302.85) sono soddisfatti; gli adolescenti hanno preferibilmente tra i 12 e i 15 anni. In una pubblicazione olandese che riflette il “protocollo olandese”, il trattamento con l’analogo del GnRH è stato iniziato in media a 14,75 anni (SD=1,92, range 11,3-18,6) [103]. Durante il processo di aggiornamento, sono stati ricevuti commenti sia sul fatto che 12 anni è un limite inferiore troppo basso, sia sul fatto che il trattamento con follow-up prolungato può essere eccezionalmente giustificato prima dei 12 anni»
[12] Proprio per questi motivi, nel documento Prendersi cura di bambini e adolescenti con disforia di genere. Supporto nazionale alle conoscenze con raccomandazioni per i professionisti e i responsabili delle decisioni, viene addirittura indicato lo stadio Tanner 3. C’è scritto, infatti: «Per il gruppo di giovani con disforia di genere nel suo complesso, il National Board of Health and Welfare attualmente valuta che i rischi del trattamento con un analogo del GnRH probabilmente superano i benefici del trattamento. La base di questa valutazione è presentata nel capitolo Nuove raccomandazioni sul trattamento ormonale – motivi e conseguenze. La base per la raccomandazione di fornire il trattamento con l’analogo del GnRH nell’ambito della ricerca è presentata anche nel capitolo Nuove raccomandazioni sul trattamento ormonale – motivi e conseguenze. La base per i criteri del supporto decisionale per i giovani che hanno raggiunto lo stadio di Tanner 3 è costituita dalle conoscenze basate sull’esperienza documentate nelle pubblicazioni scientifiche del “protocollo olandese” [5, 7, 79, 101], dall’esperienza clinica degli esperti partecipanti e da considerazioni etiche. La base per escludere dalla raccomandazione i giovani nello stadio di Tanner 2, che è coperto dal “protocollo olandese”, è il giudizio degli esperti partecipanti secondo cui il giovane ha bisogno di tempo per essere esposto alla pubertà del corpo prima di iniziare il trattamento, il che è in linea con le considerazioni etiche».
[13] Inoltre, è importante non alimentarlo con narrazioni sociali che rischiano di favorire il cosiddetto “suicide contagion”, cioè l’aumento del rischio suicidario per contagio sociale (Gould, 2013; Gould, Wallenstein, 1989; Velting, Gould, 1997; Lake, Gould, 2014; Gould et al., 2018, 2023; Gould, Jamieson, Romer, 2003; Abrutyn, Mueller, Osborne, 2020; Maple et al., 2017; Seong et al., 2021; Mueller, Abrutyn, Stockton, 2015).
[14] In altre parole, la psicoterapia, oltre a preparare o accompagnare gli interventi di tipo medico, ha anche un suo ruolo esclusivo e specifico per tutte quelle persone che, pur sperimentando disforia di genere, decidono di non intraprendere terapie ormonali o chirurgiche. Di questo stesso avviso sono ad esempio autori come ad esempio Craig, Austine e Alessi (2017) i quali, trattando del loro approccio cognitivo alla terapia affermativa per persone transgender, affermano: «In particolare, sebbene sia evidente che l’opportunità di una transizione medica è una componente fondamentale della salute e del benessere di alcuni giovani e adulti transgender, sta diventando più chiaro che ci sono molti modi in cui le persone Trans Gender Non Conforming possono vivere autenticamente. Un numero crescente di giovani e adulti Trans Gender Non Conforming non è interessato alla transizione medica, sentendosi a proprio agio con una presentazione non binaria dei loro generi senza l’uso di ormoni o altri interventi medici» (p. 142). Inoltre, nell’ultima edizione del noto manuale di Gabbard per il trattamento dei disturbi psichiatrici, Lawrence (2014) afferma: «Una convinzione comune, anche tra alcuni esperti, è che il transessualismo in età adulta “sia generalmente una condizione inalterabile” […]. In realtà, la storia naturale della grave Disforia di Genere negli adulti è compresa in modo incompleto, ma i suoi risultati sembrano essere sia variabili che non facilmente prevedibili. […] alcuni adulti con diagnosi di Disforia di Genere alla fine arrivano ad accettare il proprio sesso e il ruolo di genere; questo processo può comportare l’integrazione dei loro sentimenti di genere in Identità di Genere uniche e non tradizionali […]. Altre persone con Disforia di Genere ritengono che l’espressione del genere a tempo parziale part-time offra una soluzione soddisfacente (ad esempio, vivere in ruoli di genere solo a casa o in vacanza) […]. Di conseguenza, i pazienti e i professionisti non devono presumere che la completa transizione di genere con riassegnazione ormonale e chirurgica del sesso sia il risultato inevitabile per gli adulti con diagnosi di transessualismo o grave Disforia di Genere» (pp. 698- 699). Infine, Testa, Coolhart e Peta (2015), i quali nel loro workbook sull’esplorazione dell’Identità di Genere, rivolgendosi direttamente a giovani transgender affermano: «Poiché questi “interventi medici” sono ciò di cui si parla di più, molti giovani che scoprono che il proprio genere è diverso dai loro coetanei credono che questa sia la loro unica opzione. Non siamo d’accordo. Ci sono molti giovani con cui abbiamo lavorato che hanno scoperto che la loro identità e la loro espressione di genere sono perfette senza alcun intervento medico!» (p. 52). E aggiungono: «[…] Le persone possono incoraggiarti o addirittura fare pressione su di te per iniziare gli ormoni oppure ottenere un intervento chirurgico. Potrebbero avere buone intenzioni, ma l’ultima cosa di cui hai bisogno è prendere una decisione in base a ciò che qualcun altro vuole per te! Dopo tutto, sei tu quello che deve vivere nel tuo corpo per il resto della tua vita, non loro» (p. 55). Scopo del terapeuta, pertanto, non deve essere quello di possedere un metodo preformato al quale adattare il paziente, quanto piuttosto disporre di varie opzioni tali da poterlo aiutare a trovare la propria strada.