Il ragazzo “difettoso”

Traduzione dell’articolo di Joseph Burgo, PhD dal titolo “The ‘Failed’ boy” pubblicato il 16 agosto 2022 su Genspect.org


Cosa intendiamo quando parliamo di omofobia interiorizzata?

I termini diagnostici dalle radici greche o latine, con la loro altisonanza scientifica, danno l’impressione, in certi casi fuorviante, di riferirsi a fenomeni specifici e ben compresi. Prendiamo ad esempio la disforia di genere: ormai la maggior parte dei consumatori di mezzi di comunicazione di massa è in grado di darne la definizione approssimativa ascoltata più volte, e probabilmente ritiene che la disforia di genere si riferisca a una singola condizione facilmente diagnosticabile. Tuttavia, come la maggior parte dei terapeuti esplorativi ha imparato, il termine ha una varietà di significati per i diversi pazienti e può avere poco a che fare con il sesso biologico o l’identità di genere. A volte significa semplicemente: “ho paura di crescere”.

Questi termini diagnostici mettono in ombra anche le caratteristiche viscerali, di sofferenza delle condizioni che nominano. Ho sempre trovato ironico che una professione incentrata sulla sofferenza emotiva tenda però ad evitare il tipo di linguaggio che potrebbe in effetti evocarla, nell’intento, senza dubbio, di emulare le più empiriche scienze esatte.

Il termine omofobia interiorizzata non basta a trasmettere tutta l’angoscia di detestare te stesso perché sei diverso, dal momento che non parli, non senti, non ti muovi come ci si aspetta che facciano i maschi.

Parrebbe invece un processo quasi meccanico: hai recepito e assimilato un atteggiamento sociale esterno di rifiuto nei confronti delle persone gay e, di conseguenza, a tua volta rifiuti te stesso per le tue attrazioni omosessuali.

Senza dubbio l’atteggiamento sociale nei confronti degli omosessuali influisce sulla nostra auto-accettazione, soprattutto durante l’adolescenza e nei vent’anni, mentre consolidiamo la nostra identità; ma la consapevolezza di essere dolorosamente “diversi” spesso nasce molto più precocemente, molto prima di avere idea del significato di “essere gay”.

Per molti di noi la vergogna ha messo radici già nell’infanzia, non appena ci siamo resi conto di non essere in sintonia con le persone del nostro stesso sesso.

Molti dei miei pazienti mi raccontano uno specifico episodio giovanile che sembra sintetizzare la consapevolezza della loro differenza e la sensazione imbarazzante di essere in qualche modo un errore. Ecco il mio episodio.

Se ricordo bene, quel pomeriggio ero seduto nello stanzino adiacente al nostro garage, quello che chiamavamo “ufficio”, con le mani sulla macchina da scrivere manuale Olympia di mia madre. Avrò avuto dieci o undici anni e stavo imparando a scrivere a macchina con l’aiuto del manuale scolastico di dattilografia di mia sorella. Quel giorno mio padre tornò a casa presto dal lavoro, entrò dal garage e disse che mi avrebbe portato alle selezioni della Little League. Proprio quel pomeriggio. Dovevo prepararmi per andare.

Per i lettori non americani che non lo conoscono, la Little League del baseball è un rito di passaggio per molti bambini degli Stati Uniti (all’epoca solo maschi): è il loro primo incontro serio con lo sport di gruppo. Si presentano ai provini dove vengono valutate le loro capacità, poi vengono suddivisi in squadre e la competizione si svolge nell’arco di diversi mesi. Come molti ragazzi che in seguito sarebbero cresciuti gay, non mi piacevano né il gioco violento né la competizione, quindi mi tenevo alla larga dagli sport. Non possedevo un guantone e mio padre non mi aveva mai lanciato nemmeno una palla. Non avevo mai giocato.

Ciò che rimane nella mia memoria di quel provino di tanto tempo fa sono alcune brevi immagini intrise di paura e umiliazione. Oscillare alla cieca la mazza verso un lancio in arrivo… aspettare con terrore, il pugno nel guanto preso in prestito puntato verso l’alto, mentre la palla cade dal cielo… lanciare penosamente lontano dal bersaglio. Oggi sono consapevole che anche altri ragazzi quel giorno si saranno sentiti impacciati e inadeguati, ma io fui l’unico a scappare tra le lacrime fuggendo verso la panchina, sperando di scomparire.

Più tardi, nel tragitto in macchina verso casa, tra me e mio padre ci fu un silenzio carico di vergogna… questa parte la ricordo bene.

Allora non avrei potuto esprimerlo a parole, ma ora so che mi sentivo un maschio difettoso.

Mi ero già reso conto di essere strano (quanti bambini di dieci anni, nell’epoca pre computer, imparavano a scrivere a macchina?), ma mai in modo così umiliante. Altri uomini hanno ricordi ancora più strazianti… di padri che li hanno rifiutati, di gang di ragazzi che li hanno bullizzati o picchiati, di scherzi feroci che li hanno gettati in un vortice di silenziosa disperazione. Omofobia interiorizzata non comunica abbastanza il dolore di sentirsi un maschio fallito, un emarginato, un “perdente”.

Alla base c’è la dolorosa consapevolezza di essere diverso dagli altri maschi, in senso negativo. Le modalità che ti vengono naturali di parlare e muoverti attirano l’attenzione sulla differenza; possono evocare disgusto, antipatia e disapprovazione da parte delle persone, in primo luogo dei genitori, poi di alcuni coetanei. Non si può fare a meno di essere come si è, però si può cercare di nasconderlo, di “defemminilizzarsi”, come disse Ben Appel. Quando raggiungi la pubertà e ti prendi una cotta per altri maschi, sai che devi nascondere i tuoi sentimenti. Al contrario, cerchi di esprimerti come se fossi attratto dalle femmine, come i ragazzi “normali”.

In adolescenza e a vent’anni, questo è ciò che si prova veramente se si soffre di omofobia interiorizzata, quanto meno per alcune persone, quanto meno per come mi sentivo io:

  • la paura di essere profondamente e irreparabilmente difettosi;
  • il timore costante di essere esposti e ridicolizzati;
  • la sensazione di avere qualcosa di vergognoso da nascondere;
  • la convinzione di non poter essere amati.

L’odio per se stessi è talmente insopportabile che a volte ci si rifugia nelle droghe, nell’alcol o nel sesso compulsivo per sfuggirvi. Per risvegliarsi il giorno dopo con un odio verso se stessi ancora più profondo.

Quando la sofferenza sembra insopportabile, la soluzione del suicidio diventa attraente. Persino la morte sembra migliore del disprezzo di sé.

All’età di diciannove anni, gravemente depresso e con tendenze suicide, ho trovato un terapeuta che mi ha salvato la vita. Sfortunatamente, ha anche supportato la mia convinzione di poter “curare” la mia omosessualità e diventare un normale uomo eterosessuale, che non fosse dunque un fallimento. Mi sono sposato e ho avuto dei figli; mi ci sono voluti decenni per accettarmi.

Altri uomini della mia età hanno seguito lo stesso percorso; alcuni erano semplicemente bisessuali, mentre molti altri si detestavano per il fatto di essere gay e si sposavano con una donna per tentare di sfuggire alla loro natura.

Il matrimonio eterosessuale per noi rappresentava la cura, il trionfo sul senso di fallimento e la prova che eravamo “normali”, proprio come gli altri.

Ai giovani uomini di oggi afflitti da omofobia interiorizzata viene offerta un’altra possibilità di cura.

La transizione di genere ti offre la possibilità di fuggire dal tuo io imbarazzante e trascendere il ragazzo fallito che disprezzi. Sei una ragazza nata nel corpo sbagliato, non un maschio difettoso. Un’altra splendida e accattivante bugia.

Nei prossimi articoli su questo sito, scriverò ancora di questi giovani uomini e per loro. Potresti essere uno di loro. Se questo articolo si avvicina a come ti senti, forse stai pensando alla transizione o l’hai addirittura intrapresa, per renderti conto che alla fine la “cura” non allevia il dolore. Scriverò ancora sulla vergogna di essere gay, sui modi in cui cerchiamo di sfuggirle, e su come possiamo arrivare ad accettare e, infine, a sentirci orgogliosi di noi stessi come uomini.

Joseph Burgo è psicoterapeuta e psicoanalista da oltre trent’anni. Maggiori informazioni sul suo lavoro sono disponibili sul sito web www.josephburgo.com.

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