Identità di genere: l’importanza della fase di valutazione in psicologia

di M.G., psicologo

Da psicologo vorrei proporre alcune brevi riflessioni sulla modalità di azione che ritengo corretta durante un primo approccio con persone che riferiscono un problema di identificazione di genere e si rivolgono a un professionista della salute mentale. 

Quando una persona entra nel mio studio, generalmente è per parlarmi di una sofferenza, di qualcosa che la tormenta, la spaventa o la ferisce. Il primo compito dello psicologo dovrebbe essere accogliere e ascoltare il vissuto della persona, senza giudicarla, ma cercando di comprenderla. 

Quando poi una persona vuole realmente iniziare un lavoro su sé stessa allo scopo di stare meglio (e non è detto che per tutti sia il momento giusto), è necessario dedicare alcuni colloqui a un lavoro di valutazione, o diagnosi. In questo tempo, mentre la persona si racconta, lo psicologo cerca di cogliere gli elementi nosografici e funzionali essenziali che compongono il “funzionamento mentale” del soggetto. Evidentemente, in psicologia, la diagnosi è sempre aperta e, in qualche modo, incompleta, perché la persona è sempre in evoluzione, tanto più nel caso di un giovane. Per cui la diagnosi stessa non è mai un’etichetta rigida da apporre a un individuo, ma rappresenta piuttosto la descrizione del suo attuale funzionamento mentale, un punto di partenza. Tuttavia essa è essenziale e necessaria per impostare un lavoro serio e non fare perdere tempo e soldi al paziente. La diagnosi è un compito richiesto e un dovere preciso per il professionista. Porre una diagnosi errata è come imboccare una strada sbagliata, che porta lontano dal punto di arrivo sperato; un’assenza di diagnosi rischia di trasformare il lavoro terapeutico in un girare a vuoto senza uno scopo preciso. 

Esistono diversi tipi di valutazione o diagnosi e diverse metodologie di raccolta dei dati. Un professionista, tuttavia, dovrebbe essere in grado di valutare almeno alcuni elementi essenziali: la presenza, o meno, di sintomi di patologia psichiatrica, il livello di organizzazione di personalità (nevrotico, psicotico o borderline), la presenza di disturbi o di tratti di personalità, i bisogni della persona, i conflitti, i meccanismi di difesa, lo stile di attaccamento, l’autostima, la fragilità narcisistica, gli schemi cognitivi, lo stile relazionale, eventuali traumi o cause di stress, la mentalizzazione, gli affetti, l’umore e le risorse della persona.

Un buon lavoro di diagnosi – pur precedendo la terapia vera e propria – può risultare già in sé stesso terapeutico: mentre questo lavoro si compie, il problema presentato inizialmente può essere ricompreso e riconsiderato in un quadro più ampio. È la persona stessa che, allargando mano a mano la visione e la consapevolezza che ha di sé stessa – in un lento ma costante lavoro di rispecchiamento con il terapeuta – risignifica e ricolloca il problema, sentito inizialmente come unico e urgente, in una visione più ampia. Si può giungere, gradualmente, a comprendere come un sintomo (cioè qualcosa che emerge e che “grida” la sua presenza) possa essere un segno che rimanda ad altro, a qualcosa di meno consapevole e più nascosto (non per questo più spaventoso). Oppure si può giungere perlomeno a “legare” il problema anche ad altri elementi importanti della personalità.

Non mi pare infatti utile né costruttivo un approccio che scinda la persona in aree rigide e scollegate le une dalle altre, come se fosse possibile parlare della propria identità di genere senza narrare anche le proprie relazioni, la propria autostima e la propria storia. 

Nel rispetto assoluto del paziente, lo psicologo dovrebbe, a un tempo, ascoltare e accogliere il verbale della persona ma anche guardare “oltre” ad esso, per comprendere il funzionamento profondo del soggetto, di cui spesso egli stesso è meno consapevole.

È più facile, infatti, narrare un sintomo che le sue cause. Se il termine “sintomo” infastidisce, perché richiama un contesto medico e patologico, si specifica che, in questo contesto, esso significa semplicemente un “segno”, cioè un fenomeno che rimanda ad altro.

Uno psicologo non svolgerebbe in maniera coscienziosa la propria professione se evitasse il lavoro di valutazione/diagnosi, limitandosi a confermare quello che il paziente afferma di sapere già di sé stesso, o si limitasse a tamponare un sintomo/segno senza indagarne le cause. Mancherebbe l’essenza del lavoro terapeutico. Per questo un approccio solo “affermativo” sarebbe limitante e riduzionistico rispetto alla grandezza e al mistero dell’individuo e alla serietà della professione.

Un approccio unicamente affermativo è figlio della cornice teorica di una società (e una psicologia) narcisistica, in cui il valore unico è rappresentato dall’autodeterminazione di una libertà – di un “Io” –, concepita in maniera assoluta a costo di perdere perfino il contatto con la realtà. 

Psicologo e paziente dovrebbero invece giungere insieme a (ri)conoscere anche “altro” rispetto a quello che uno crede di sapere già di sé stesso, poiché la realtà è sempre più ampia e profonda di quanto già conosciamo di essa. Se lo psicologo perfetto evidentemente non esiste, quello “sufficiente” dovrebbe essere colui che ha fatto questo lavoro in profondità almeno su sé stesso per primo. 

Questa riflessione vale tanto più per il tema sessuale. La sessualità, infatti, è “plastica” per definizione, cioè spesso assume la forma del problema sottostante. Può esprimere, cioè, gridare e rendere visibile, un bisogno di altra natura, diverso per ognuno. Un sintomo (o un segno, un fenomeno) può, in alcuni casi, rappresentare una difesa che il soggetto mette in atto per pararsi da altro, per esempio bassa autostima, relazioni conflittuali, conflitti interiori, abusi. Per questo lo psicologo non può fermarsi a quello che appare in superficie, ma deve compiere una riflessione clinica: ogni segno o sintomo va ascoltato e compreso, per capire a cosa rimanda. 

Specialmente davanti al giovane che presenta un problema di identificazione di genere, è importante quindi che il professionista indaghi anche altre aree della vita, allargando la visione: il rapporto con i genitori, fratelli e sorelle, il rapporto con gli amici, le esperienze scolastiche, il tempo libero, il rapporto con il proprio corpo e la sessualità, le convinzioni, le emozioni, i sogni, i desideri, le paure, le problematiche evolutive principali. 

Lo psicologo che esercita con coscienza ascolterà empaticamente la persona ma non si limiterà solo a quanto viene verbalizzato come “il” problema dell’identità di genere. Il punto centrale, a differenza di una certa impostazione esternalizzante del problema, non è quasi mai, infatti, nella realtà esteriore, ma abita nella psicodinamica della persona. Finché si colloca il problema all’esterno (corpo sbagliato, famiglia sbagliata, scuola sbagliata, partner sbagliato…) la persona non comincia davvero a lavorare su sé stessa e si illude solamente di risolvere il problema proiettandolo all’esterno. La vita, infatti, ci metterà sempre davanti a qualcosa che fatichiamo ad accettare – un “nemico” esteriore –  ma la soluzione probabilmente non sta nell’intestardirsi nel tentativo di cambiare qualcosa su cui non abbiamo potere, ma nel prendere spunto dalla realtà per lavorare su di noi stessi e cambiare. Perfino un’operazione di chirurgia estetica, infatti, non potrebbe cancellare quello che è scritto nel DNA di ogni nostra singola cellula. È a questo lavoro interiore (spesso una vera lotta, ma costruttiva e veramente liberante) che lo psicologo deve dolcemente e costantemente riportare il paziente. 

Un’ultima annotazione fondamentale: nel lavoro con una persona minorenne, lo psicologo non può mai prescindere dal rapporto con i genitori della stessa.

Dovrebbe avere con essi un confronto costante e trasparente, di cui il minore dovrebbe essere informato. Esistono, a questo riguardo, abominevoli “linee guida” che esautorerebbero, in taluni casi, la figura dei genitori. È necessario invece intessere con i genitori un rapporto di sincera fiducia e stima reciproca, cioè di alleanza terapeutica: troppo spesso la sofferenza dei genitori viene dimenticata o derubricata come pregiudiziale. 


Bibliografia essenziale

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