Una mamma ripensa alla sua adolescenza: “e se avessi adeguato il mio corpo ai miei desideri?”
Riportiamo le riflessioni di una delle mamme dell’associazione GenerAzioneD
Stamattina ero nella doccia e pensavo, come sempre, alle preoccupazioni che mi dà la mia bellissima 13enne, che da quasi un anno si identifica in un maschio transgender. Pensavo al disagio per il corpo, alla disconnessione con il corpo, al desiderio di intervenire per modificarlo – il corpo-, e sono tornata indietro di 30 anni, nella mia di adolescenza.
Scuola media, 12-13 anni, piena trasformazione, tempesta ormonale: mi sentivo orribile. Non ero l’unica eh! A parte qualche raro essere femminile così miracolato da passare indenne dalla bellezza dell’infanzia allo splendore della gioventù, eravamo tutte più o meno nella -spesso spiacevole e a tratti dolorosa- barca: gestire un corpo acerbo, maldestro e indomito, che nel migliore dei casi non attirava attenzioni indesiderate, ma a volte, come se non bastasse, lo faceva.
I nostri modelli (o modelle) di bellezza passavano spesso dalla tv, in programmi come “Non è la Rai” o “Miss Italia” e concorsi vari. Mi ricordo che, nonostante -o forse proprio a causa del fatto che- vivessi in una famiglia in cui si dava alla bontà, all’impegno, all’intelligenza e alla lealtà ben più valore che all’aspetto fisico e apparenza, avevo interiorizzato la credenza che molto del mio valore dipendesse dall’essere bella. Mi capitava di sognare che sarei andata anche io in tv, che sarei stata perfetta come le ragazze della tv, quando finalmente mi sarebbe cresciuto il seno (mai, nemmeno dopo 2 figli e diversi chili in più), quando mia mamma mi avrebbe comprato la crema per i brufoli della pubblicità e quella miracolosa per i cuscinetti e la cellulite (chissà quanta ne avevo a 13 anni…).
Oltre che bruttina, mi sentivo incompresa: mia mamma non capiva che, così com’ero, non andavo bene, e che bisognava farci qualcosa. I miei coetanei non potevano vedere che in realtà sarei stata bella, se solo avessi potuto avere i vestiti, i trattamenti estetici e i trucchi che nessuno era disposto a procurarmi.
Si può dire che vivessi un vero e proprio disagio nei confronti del mio aspetto fisico. Si potrebbe parlare anche di totale disconnessione con il mio corpo, nel momento in cui (in assenza di telefonini dotati di fotocamere digitali e della maestria che le moderne adolescenti hanno nel farsi selfie strategici) faticavo a riconoscermi nella foto di classe: chi è quella ragazzetta insignificante col sedere gigante, che io quel giorno pensavo di essere così carina?
Mi chiedo: può assomigliare il disgusto che provavo per il mio corpo, l’impossibilità di considerarlo per quello che era, l’immaginarlo più bello e poi vederlo così tanto brutto, a quello che prova mia figlia? Può la sua disforia di genere avere radici comuni a quel mio modo di sentire?
Sintomi alla mano, in comune con lei avevo (e parzialmente ho ancora) nei confronti del corpo:
- la vergogna di esporlo;
- l’abitudine ad annegarlo in vestiti enormi;
- il desiderio di modificarlo anche chirurgicamente;
- la sensazione che fosse una gabbia crudelmente diversa dal corpo che avrei dovuto avere per poterlo riconoscere e sentire mio.
Mi viene da chiedermi se, a quell’età, avrei potuto anche io cadere nella convinzione di essere vittima di un tragico errore e di essere nata nel corpo sbagliato.
Ai tempi non si parlava di identità di genere -né tantomeno di essere nati in un corpo sbagliato- quindi penso proprio di non aver mai indagato, davanti al mio rifiuto del corpo, la possibilità di ‘essere maschio’ (il ‘non-binary’ non era contemplato proprio), nonostante la categoria mi sembrasse aver vita più facile, in quanto immune a molte problematiche e a molti dolori, ma anche – non a caso – al dover essere molto belli per essere desiderati. A posteriori, credo che avrei comunque salvato il mio essere femmina in virtù del desiderio di maternità, che fin da piccola ho sviluppato molto forte, facendone un ideale e un obiettivo di vita. Ma posso dirlo con certezza?
Tra i pensieri che scorrono insieme al getto d’acqua e le domande che non possono trovare risposta (perché lei non è me, e io non sono la me che ero, e io non saprò mai cosa c’è in lei, e lei non sa come sarà da adulta, ecc.), ma non per questo non hanno senso, mi trovo a pensare che nella mia personalissima disforia di adolescente io volevo tanto essere una ragazza bella e -di conseguenza nella mia testa- popolare (anzi pensavo che sarei dovuta esserlo), e possibilmente diventare mamma prima dei 20 anni. Per assurdo che possa sembrare, a quei tempi quella era una parte piuttosto considerevole di ciò che desideravo essere.
Sentivo quel corpo, che mi era capitato, così tanto sbagliato da non essere in grado di guardarlo, vederlo e magari valorizzarlo per quello che era. Lo specchio diceva una cosa, le foto un’altra. Facevo finta di essere quello che non ero, mentre la mia mamma, e più avanti le mie amiche e poi i fidanzatini, mi facevano da amorevole specchio per una realtà, che non era quella che volevo, ma non era poi così male.
Non volendo paragonare la sofferenza di mia figlia alla mia, perché -come dicevo prima- non credo abbia senso, nel mio percorso mentale non ho potuto esimermi da procedere lungo la fantasia del: “cosa sarebbe successo se…?”.
Ad esempio, se avessi detto ai miei genitori che mi sentivo nata per diventare una velina, una letterina, una concorrente di Miss Italia, un’attrice, ma che il mio aspetto, così com’era non me lo permetteva? Il problema nella mia famiglia non si è posto: un’ambizione del genere non era degna di essere chiamata tale. In più, per la mia mamma ero la più bella del mondo.
Ma se i miei genitori avessero valutato che rientrare nei canoni di bellezza mi avrebbe aperto le porte a delle esperienze, un riconoscimento e una carriera di cui sentivo di aver bisogno, e avessero dunque ascoltato e assecondato le mie necessità di ‘sistemare’ o ‘adeguare’ il corpo alle mie aspirazioni? Se avessero appoggiato negli anni le più disparate richieste (che in effetti potrei anche aver esplicitato, senza ottenere -fortunatamente- la benché minima considerazione) di rifare il naso, aumentare il seno, fare la liposuzione alle cosce, come sarei ora? Chi sarei ora? Ma soprattutto, quale parte di me avrei nutrito e consolidato? Non ci sarebbe forse stata una falsa me in giro per il mondo e magari anche dietro una telecamera?
Che poi col tempo, diventando una giovane donna, ho imparato a valorizzarmi, a prendere confidenza col mio corpo. E sono anche diventata mamma giovane, come sognavo. E tuttavia anche oggi, sotto la doccia, questo corpo – per di più appesantito – mi fa ancora arrabbiare: lo perdono giusto perché è sano, mi sopporta e ha dato la vita alle mie due ragazze.
Ma se il mondo non mi avesse dato il tempo di venire a patti con il corpo in cui sono nata?
Se le persone intorno a me avessero convalidato la mia disconnessione e mi avessero permesso di modificare il mio aspetto, per avvicinarmi a un’ideale per nulla reale, cosa ne sarebbe stato di me e della mia salute mentale?
Col senno di poi, è probabile che soffrissi di dismorfia. Nessuno avrebbe pensato di curarmi con la chirurgia estetica, bensì – se ci fosse stata a una maggiore attenzione alla salute mentale – con un percorso di psicoterapia che potesse aiutarmi a superare le mie difficoltà.
Vorrei che lo stesso approccio venisse proposto anche a mia figlia dai professionisti della salute mentale, che più facilmente invece constatano la sua disforia di genere, confermano il suo sentirsi maschio, convalidano di fatto il suo desiderio di adeguare il corpo alla sua percezione di sé. Con tutte le conseguenze che ne derivano.