Aumento suicidi dopo lo stop ai bloccanti? Il governo UK smonta pericolosa fake news
A seguito della decisione del Ministro della Salute inglese di mettere uno stop alla prescrizione di bloccanti della pubertà a bambini e ragazzi con disforia di genere anche nelle cliniche private, sono cominciate le contestazioni da parte degli attivisti, i quali hanno incentrato le proteste su una presunta impennata di suicidi che – a detta loro – si sarebbe verificata tra i pazienti del servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (Gender Identity Development Service, GIDS) del Tavistock in seguito alla restrizione del farmaco causata dalla decisione dell’Alta Corte nel caso Bell contro Tavistock del dicembre 2020.
Nelle scorse settimane l’organizzazione Good Law Project aveva lanciato, insieme alle gravi accuse che hanno seminato il panico tra i ragazzini colpiti dalla disforia di genere e i loro genitori, una campagna di crowdfunding per finanziare la causa contro il ban dei bloccanti della pubertà deciso dal governo. La campagna di raccolta fondi è stata recentemente chiusa.
Per rispondere alle accuse mosse dal gruppo di attivisti del Good Law Project, che su X (ex Twitter) ha sostenuto l'”esplosione” dei suicidi, facendo espliciti riferimenti a “bambini morti” (dead child) per non aver avuto accesso ai bloccanti della pubertà, il governo inglese ha reso pubblica una revisione indipendente del Professor Louis Appleby dell’Università di Manchester, Consulente del Dipartimento della Salute e dell’Assistenza Sociale per la prevenzione dei suicidi.
Il Professore ha esaminato i dati forniti dall’NHS England (NHSE) sui suicidi di giovani pazienti dei servizi di genere del Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, basandosi su un audit effettuato presso il trust, al fine di verificare le evidenze di un forte aumento dei suicidi, come sostenuto dagli attivisti.
In sintesi, la review ha concluso che:
- I dati non supportano l’ipotesi di un forte aumento dei suicidi nei giovani pazienti con disforia di genere al Tavistock.
- La questione è stata affrontata sui social media in modo indelicato, preoccupante e pericoloso, andando contro le linee guida su come trattare pubblicamente il tema del suicidio.
- Le affermazioni pubblicate non soddisfano gli standard minimi di evidenza statistica.
- È fondamentale superare la convinzione che i bloccanti della pubertà siano l’unico segnale di accettazione non giudicante in questo ambito della sanità.
- È necessario basarsi su dati di alta qualità a cui potersi affidare come base di partenza per garantire maggiore sicurezza a questo gruppo di giovani a rischio.
La pesante offensiva all’NHSE, basata su prove (non rese pubbliche) che sarebbero state fornite da due informatori interni a Tavistock, è stata ritwittate migliaia di volte e ripresa da giornalisti di spicco, che non si sono presi la briga di verificare le fonti. Una delle affermazioni sconvolgenti fatta dal gruppo Good Law Project è che ci sia stato un solo suicidio tra i pazienti in lista d’attesa per il GIDS nei tre anni precedenti la sentenza dell’Alta Corte, e 16 decessi (per non dire suicidi) in seguito alla sentenza. Sembra che gli informatori insinuino che l’NHSE possa aver insabbiato la vicenda.
Dall’analisi indipendente pubblicata il 19 luglio emerge uno scenario ben diverso: i dati non supportano in alcun modo quanto affermato dagli attivisti.
“I dati relativi ai 6 anni presi in esame”, si legge, “sono 12 suicidi in totale, in media 2 all’anno, di cui la metà sotto i 18 anni. Con numeri piccoli, si possono prevedere differenze a una cifra e le spiegazioni causali sono inaffidabili”.
Inoltre, “i pazienti deceduti si trovavano in punti diversi del sistema di assistenza, anche dopo la dimissione, il che suggerisce l’assenza di un legame coerente con un singolo aspetto dell’assistenza. Avevano molteplici fattori di rischio sociali e clinici per il suicidio”.
Il dossier, oltre a smentire l’atroce fake news messa in circolo dal Good Law Project, si sofferma sulla pericolosità del messaggio propagandato sui social media e sulla stampa, in contrasto con qualsiasi buona pratica nella comunicazione sul tema del suicidio.
“Si rischia che i giovani e le loro famiglie vengano gettati nel terrore dalla narrativa del suicidio inevitabile senza i bloccanti della pubertà – alcuni commenti sui social media lo dimostrano”.
Un altro rischio è l’identificazione da parte degli adolescenti: nel momento in cui gli viene detto che “persone come te, con problemi simili ai tuoi si uccidono”, potrebbero essere indotti al suicidio o all’autolesionismo imitativo, fenomeno a cui i giovani sono particolarmente esposti.
“C’è poi l’indelicatezza della retorica del “dead child” (bambino morto). Il suicidio non dovrebbe mai diventare uno slogan o una strategia per vincere un dibattito. Per le famiglie di 200 adolescenti all’anno in Inghilterra, è devastante e purtroppo reale”.
Leggi il documento originale sul sito Gov.uk