Audizioni alla Camera: le critiche autorevoli all’approccio affermativo per la disforia di genere

A seguito delle risoluzioni n. 7/00198 e n. 7/00212, presentate nella primavera 2024 dalle deputate Zanella Luana del Gruppo Alleanza Verdi e Sinistra e Sportiello Gilda del Movimento 5 Stelle, sono state depositate presso la XII Commissione Affari Sociali alcune memorie scritte da parte di stimati professionisti sanitari, nelle quali gli studiosi illustrano il proprio pensiero in merito all’approccio affermativo con il quale viene ancora oggi trattata nel nostro paese la disforia di genere. 

Estrapoliamo dai testi depositati alcuni stralci che riteniamo significativi e, come genitori, ci chiediamo se di fronte ad affermazioni così chiare e inequivocabili, rese da autorevoli professionisti, non sia necessario e indispensabile riflettere sul tema in modo costruttivo, riconoscendo come le evidenze scientifiche sul trattamento della disforia di genere siano assolutamente incerte e dibattute.

Tenuto conto che la terapia affermativa propone trattamenti farmacologici a vita a bambini, adolescenti e giovani adulti, nonché conseguenti amputazioni chirurgiche, riteniamo che coerenza etica e professionale imporrebbe di adottare l’approccio più cauto fra quelli in discussione, visto che il primo dovere di una comunità sana è quello di preservare il benessere dei minori e dei giovani, tutelandoli da trattamenti eccessivamente invasivi e irreversibili. Specialmente se quei trattamenti sollevano dubbi, critiche e censure, ora depositate per iscritto.


Il parere della Dr.ssa Massimino – audizione del 9 aprile 2024

Maura Massimino, direttrice della Divisione di Oncologia Pediatrica dell’IRCSS (Istituto Nazionale dei Tumori) dal 1/7/2010, lavora come oncologa e pediatra da 37 anni presso tale struttura. Nella sua lunghissima esperienza ha seguito anche bambini affetti da pubertà precoce, la cui manifestazione è talvolta correlata alla presenza di tumori nella regione ipotalamo-ipofisaria, che è una struttura delicatissima all’interno del nostro encefalo. In tali situazioni viene somministrata la triptorelina, la quale “agisce come inibitore dell’attività degli ormoni ipofisari anche in individui già del tutto puberi o adulti: vi sono indicazioni in diversi tumori, come alcuni fibromi uterini, tumori della prostata e della mammella e patologie non neoplastiche, ma invalidanti, come l’endometriosi.  È dunque un farmaco con una attività certaIl suo uso in condizioni di non-patologia endocrina quale è l’indicazione data dalla disforia di genere, che non è una malattia organica, è stato molto meno valutato, perlomeno per quanto riguarda gli effetti collaterali

Poiché la pubertà non è un fenomeno di crescita esclusivamente legato agli ormoni sessuali, ma è una evoluzione complessiva di tutto l’essere umano, la Dr.ssa Massimino contesta l’opinione secondo la quale il “blocco della pubertà” rappresenta una terapia benefica e reversibile. A suo avviso “bloccare gli ormoni significa non solo rimandare, ma anche perdere in maniera definitiva dei passaggi importanti che fanno parte del vissuto insieme ai pari che progrediscono nel loro fisiologico sviluppo ormonale”. 

Tenuto inoltre conto che dal punto di vista cognitivo vi sono dei limiti all’apprendimento, alla critica e alla dialettica nel passaggio da bambino ad adulto, “non è pensabile una interruzione ed una riaccensione di questo delicato ed estremamente complesso processo con l’automatismo di cui si parla ora con conoscenze molto sommarie”.  

La Dr.ssa Massimino ricorda anche che gli effetti collaterali della triptorelina sono ben noti: “osteopenia, alterazione di colesterolo e trigliceridi, alterata distribuzione della massa grassa, riduzione del tono muscolare e della crescita…., difficoltà nell’apprendimento della matematica e delle scienze esatte, riduzione del tenore osseo anche 24 mesi dopo la sospensione del farmaco, ansia e depressione come prima del trattamento (cioè alla diagnosi della disforia), maggiore massa grassa…, riduzione della crescita, riduzione del quoziente intellettivo, aumento ponderale persistente anche dopo due anni dalla fine del trattamento, dislipidemia. Tutto questo a bambini prima sani. Non sto a descrivere gli effetti collaterali acuti quali cefalea, nausea, vampate, sanguinamento vaginale, etc.”.

Sussistono inoltre una serie di effetti collaterali ad oggi non studiati, non essendo stato ancora effettuato un adeguato follow-up della coorte di questi nuovi pazienti disforici, per cui rappresenta un errore proporre il trattamento come caratterizzato da completa reversibilità. Per la Dr.ssa Massimino i bloccanti della pubertà “non sono del tutto reversibili neppure in chi ha la pubertà precoce..In particolare la fertilità successiva è un grosso dubbio…”.

La conclusione è inequivocabile:

Per tutto questo il trattamento con triptorelina, così come si fa in campo oncologico, deve essere prescritto sotto stretta osservazione e solo quando ne esistano indicazioni considerate indispensabili e continuative. Il calcolo costo/benefici non appare al momento attuale minimamente vantaggioso”.

Leggi anche: Bloccanti della pubertà per la disforia di genere: il parere della Dr.ssa Massimino

Il parere del Dr. Emiliano Lambiase – audizione del 4 aprile 2024

Emiliano Lambiase, psicologo e psicoterapeuta, Coordinatore dell’Istituto di Terapia Cognitivo Interpersonale (ITCI) e Responsabile del servizio per l’identità di genere dell’ITCI, si occupa dall’anno 2000 di ipersessualità, parafilie e problematiche che riguardano l’integrazione tra affettività e sessualità, oltre che alle tematiche inerenti all’orientamento sessuale e all’identità di genere.

Il Dr. Lambiase ricorda che negli ultimi anni sono state sollevate varie criticità rispetto al modello affermativo e al modo con il quale viene messo in atto, “portando molte nazioni ad adottare linee guida più attente e caute, in particolare per i minori (ma non solo), rimettendo la psicoterapia al centro del processo valutativo e d’intervento”.

Secondo il Dr. Lambiase, “decisioni come la transizione sociale e l’inizio dei bloccanti della pubertà, sebbene da molti considerate esplorative, vanno prese molto attentamente. Alcune ricerche sottolineano che chi inizia la transizione sociale tendenzialmente mantiene un’identità transgender e chi assume bloccanti della pubertà tendenzialmente prosegue con la terapia ormonale. Quindi, in entrambi i casi, è possibile che venga ostacolata la fisiologica desistenza dell’incongruenza di genere che avviene nella maggior parte dei ragazzi. Inoltre, in entrambi i casi, non sembra che applicare tali strategie abbia portato a tutti i benefici attesi e, anzi, a volte, conseguenze negative”

In merito alla transizione sociale, il Dr. Lambiase ricorda come gli ultimi studi sostengano che tale intervento non è un atto neutro, per cui occorre estrema cautela nell’adozione. Allo stesso modo la recente letteratura osserva come l’uso dei bloccanti della pubertà non rappresenti semplicemente un’estensione della fase di valutazione, bensì potenzialmente già l’inizio della transizione a tutti gli effetti.

Secondo il Dr. Lambiase “è importante ricordare che alcune nazioni, dopo aver analizzato la letteratura scientifica, ne hanno limitato l’uso solo a determinate condizioni e all’interno di protocolli di ricerca”. Ad oggi gli studi effettuati su tale trattamento “non hanno mostrato una chiara superiorità dell’intervento medico rispetto alla psicoterapia oppure non hanno distinto la psicoterapia dal trattamento medico”. Occorre prendere atto del fatto che la maggior parte della ricerca fin qui svolta “è risultata concettualmente o metodologicamente molto carente”. Inoltre non abbiamo ancora ricerche che forniscano risposte riguardo al possibile disallineamento tra la parte dello sviluppo che viene sospesa dai bloccanti (e poi fatta ripartire tempo dopo) e le altre parti “che proseguono la loro maturazione, sia nella persona (ad esempio quella cognitiva e affettiva) che nella relazione con i pari (che nel frattempo proseguono con la loro crescita)”. 

A tal proposito il Dr. Lambiase sottolinea l’incongruenza presente nelle linee guida del modello affermativo contenute nell’ultima versione degli Standards of Care della World Professional Association for Transgender Health (WPATH), le quali dapprima indicano che “l’uso di farmaci che bloccano la pubertà […] non è raccomandato fino a quando i bambini non hanno raggiunto almeno lo stadio Tanner 2 della pubertà, poiché l’esperienza della pubertà fisica può essere fondamentale per l’ulteriore sviluppo dell’identità di genere per alcuni adolescenti TGD”, mentre successivamente consigliano di bloccare la pubertà subito dopo l’avvio dello stadio Tanner 2, impedendo quindi al bambino “la sperimentazione di quegli elementi costitutivi che potrebbero favorire la desistenza, con il rischio di incrementare il numero di ragazzi che poi procederanno con il percorso di transizione”. 

Il Dr. Lambiase ritiene quindi che “la psicoterapia dovrebbe essere considerata la prima e preferenziale opzione terapeutica, mentre l’eventuale assunzione di bloccanti della pubertà dovrebbe essere vincolata a un precedente periodo di psicoterapia senza risultati positivi, all’inserimento in protocolli di ricerca controllati e con determinati criteri di selezione e protratta per un periodo di tempo programmato. Inoltre, non andrebbe legata solo all’inizio della fase Tanner 2 di sviluppo puberale, ma dovrebbe anche considerare il processo di sperimentazione affettiva e sessuale (come affermano appunto gli autori dell’articolo citato dagli Standards of Care), vissuto con sé e con gli altri, e questo andrebbe esplorato, osservato ed elaborato all’interno di un percorso psicoterapeutico, e ciò potrebbe portare ad attendere anche oltre”.

Con riferimento al rischio suicidario, il Dr. Lambiase ritiene che, “sebbene sembri essere molto basso, va seriamente preso in considerazione”, per cui sono da escludere l’adozione di scelte terapeutiche automatiche, necessitando invece “valutazioni personalizzate in funzione della personalità e delle eventuali comorbilità” del soggetto disforico. Quanto all’affermazione secondo la quale il percorso di transizione aiuti a prevenire il rischio suicidario, il Dr. Lambiase osserva come recenti ricerche qualifichino tale rischio come “molto basso, di poco più alto rispetto a quello della popolazione psichiatrica e almeno in uno studio è emerso anche un aumento del rischio dopo gli interventi di chirurgia affermativa genitale. Inoltre, sembra spiegato in buona parte proprio dalle comorbilità psichiatriche e (sembra) migliorare quando queste vengono trattate. Inoltre, proprio perché il rischio suicidario va tenuto in considerazione anche quando bassissimo, è necessario valutare molto attentamente le scelte terapeutiche che vengono effettuate, pesandone sia gli effetti a breve che a lungo termine, riguardo la salute psicologica e fisica generali dei pazienti, cercando di non assecondare dinamiche psicologiche insite nei disturbi psichiatrici in comorbilità. La gestione del rischio suicidario in psicoterapia, infatti, prevede scelte complesse e non fondate automaticamente sulle emozioni del paziente e sulla paura delle altre persone coinvolte”.  

Per tale motivo “la diagnosi di disforia di genere non è la fine di un processo di valutazione ma il suo inizio, in quanto le scelte che verranno non sono automatiche, ma derivano da un complesso processo di esplorazione e valutazione”.  

Il parere del Dr. Giancarlo Dimaggio – audizione del 7 maggio 2024

Giancarlo Dimaggio, psichiatra e psicoterapeuta, nonché socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), editor in chief del “Journal of Clinical Psychology: In-Session”, senior associate editor del “Journal of Psychotherapy Integration”, associate editor di “Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice” e membro dell’editorial board del “Journal of Personality Disorder” e di “Psychotherapy Research”, si occupa di clinica, ricerca e formazione in psicopatologia e psicoterapia con particolare attenzione ai disturbi di personalità.

Nel suo intervento, il Dr. Dimaggio illustra come “l’approccio affermativo, in particolare l’uso dei bloccanti della pubertà, abbia fondamenti scientifici insufficienti e come la sua applicazione impedisca ai curanti di valutare e trattare in modo corretto, secondo scienza e coscienza, i problemi psicopatologici dei minori con incongruenza di genere”. 

Secondo Dimaggio “il dibattito sui bloccanti della pubertà è probabilmente arrivato a un punto di non ritorno con la pubblicazione della Cass Review, commissionata dal NHS inglese”, tenuto conto che questo documento dimostra come ad oggi “non abbiamo prove sugli esiti a lungo termine degli interventi per gestire lo stress legato al genere”. Per tale e altri motivi, “la Review ha già consigliato che, dal momento che i bloccanti della pubertà hanno benefici chiaramente definiti in circostanze molto strette e hanno rischi potenziali nel neurosviluppo cognitivo, sullo sviluppo psicosessuale e sulla salute ossea a lungo termine, dovrebbero essere somministrati solo all’interno di un protocollo di ricerca”. 

Il Dr. Dimaggio concorda con la Cass Review, secondo cui finora “la somministrazione dei bloccanti della pubertà sia avvenuta non rispettando a sufficienza i parametri della scienza medica, il che è preoccupante visto che si parla di cure somministrate a minori, verso i quali è necessaria una cautela ancora maggiore”.  

Le attuali linee guida affermative, infatti, “sono emanate a partire dall’urgenza di trattare un problema, il rischio di suicidio, la cui dimensione è stata completamente sovrastimata. Il rischio di suicidio nella popolazione con incongruenza di genere è sì più alto rispetto agli altri adolescenti, ma è comunque molto basso in senso assoluto, e l’eccesso è con grande probabilità dovuto ad altri motivi e non all’incongruenza di genere in quanto tale”.  

Occorre inoltre sottolineare che le linee guida affermative “prescrivono l’uso di trattamenti che non hanno prove di efficacia…, sono di scarsa qualità… e hanno effetti collaterali certi”, mentre gli “effetti collaterali a lungo termine non sono stati studiati in questa popolazione”.  Inoltre trascurano completamente la ricerca riguardo a trattamenti alternativi che potrebbero essere più utili, o utili in specifici sottogruppi” e “impongono ai curanti, in particolare agli psicoterapeuti, categoria alla quale appartengo, una priorità di azione immotivata”. 

Tale ultima conseguenza è molto grave. “Chi esprime incongruenza di genere ha tassi di comorbilità alti: depressione, ansia, disturbi post-traumatici, comportamenti auto lesivi, autismo, ADHD, disturbi alimentari. Il clinico che valuta un minore si trova di fronte persone con alti livelli di psicopatologia e ha bisogno di tempo e di una valutazione comprensiva di tutti questi aspetti per decidere le priorità di intervento e con quale trattamento curarle.  Tutto questo è reso impossibile se viene imposto al clinico di affrontare prima di tutto l’incongruenza di genere attraverso l’approccio affermativoNon esistono prove che portare il minore ad affermare la propria identità di genere debba essere l’elemento centrale del trattamento, né che se tale passaggio viene favorito questo porti a miglioramenti nelle altre aree. Non ci sono inoltre prove che la causa della sofferenza psicopatologica così elevata di questi minori sia legata al minority stress e che quindi l’affermazione di genere la risolverebbe”.  

Il terapeuta non può permettersi di ignorare le comorbilità e deve affrontarle preliminarmente all’esame della disforia di genere. “Appare del tutto evidente che tacciare una tale attitudine da parte degli psicoterapeuti come un esercizio di “terapia di conversione” è del tutto falso e fuorviante. Si tratta di valutare la psicopatologia e trattarla”.  

Il Dr. Dimaggio conclude affermando che “nel caso delle tendenze suicide, l’approccio affermativo sostiene un’idea che gli studi hanno smentito o largamente ridimensionato, ovvero che riduca il rischio di suicidio. Inoltre non è per niente scontato, laddove emergesse grazie a studi rigorosi che fosse capace di ridurre il numero di suicidi completati, affermare che il fattore curativo siano i farmaci e non altri elementi della cura, come per esempio l’effetto aspecifico di avere un’équipe dedicata; o la presenza di un lavoro parallelo, non collegato all’approccio affermativo, che ha ridotto le tendenze suicidarie o che magari ha aiutato a risolvere altri problemi che erano sottostanti alle tendenze suicidarie”.  

Leggi anche: Il Dr. Dimaggio: “Sbagliato dare priorità all’approccio affermativo”

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