Del Giudice: “I dati a supporto del modello affermativo sono deboli e viziati”
Ringraziamo il Prof. Del Giudice per averci autorizzato a pubblicare la memoria che ha depositato presso la XII Commissione Affari Sociali, a seguito audizione resa in data 4 aprile 2024 sul tema della somministrazione di bloccanti della pubertà in ambito di incongruenza e disforia di genere.
Chi è il Prof. Marco Del Giudice
Psicologo e dottore di ricerca in scienze cognitive.
Professore Associato al Dipartimento di Scienze della Vita Università di Trieste.
Già Professore Associato al Department of Psychology, University of New Mexico, Albuquerque.
La sua attività di ricerca è dedicata principalmente allo sviluppo e alla misurazione delle differenze di genere, alle basi biologiche dei disturbi mentali e al ruolo dei meccanismi ormonali nello sviluppo psicologico, in particolare nel periodo della media fanciullezza/preadolescenza.
Nel 2016 gli è stato conferito l’Early Career Award della Human Behavior and Evolution Society (HBES).
Il modello affermativo si basa su una catena di presupposti che i suoi promotori danno per assodati e scientificamente solidi (Box 1). Se gli anelli di questa catena reggono dal punto di vista empirico, il modello affermativo diventa giustificato, anzi necessario. Ma se gli anelli cedono, il modello entra in crisi e deve essere ripensato o abbandonato.
I presupposti del modello affermativo (Box 1)
1. La disforia di genere non è una vera e propria patologia (nonostante sia inclusa nei manuali diagnostici), ma una manifestazione dell’incongruenza tra il sesso “assegnato alla nascita” e il genere percepito interiormente dalla persona; quest’ultimo dev’essere affermato per risolvere la disforia. A differenza di altre condizioni, non è prevista un’indagine per valutare l’autenticità o l’adeguatezza di quanto il paziente percepisce, oppure se il vissuto sia secondario ad altre problematiche o disturbi.
2. L’incremento rapido e massiccio dei casi di disforia negli ultimi anni è spiegato dalla crescente accettazione e consapevolezza a livello culturale, piuttosto che da processi di auto-attribuzione e contagio sociale. I tassi elevatidi disturbi mentali nei pazienti disforici (come ansia, depressione, disturbi alimentari e di personalità) sono dovuti allo stigma e alla discriminazione esperiti dai pazienti (minority stress), o dalla difficoltà a vivere in un corpo che non corrisponde alla propria identità; in altri casi, vengono ritenute come condizioni parallele e distinte, non come possibili concause della disforia stessa.
3. Il trattamento d’elezione si basa sulla transizione sociale verso il genere percepito dal paziente, seguita (se necessario) da procedure mediche come la soppressione della pubertà, la somministrazione di ormoni cross-sex, e la riassegnazione chirurgica. La psicoterapia può avere un ruolo di supporto e accompagnamento, ma non deve essere usata per esplorare le possibili cause della disforia, o tentare di risolverla in modi alternativi. Questi usi della psicoterapia sono ritenuti dannosi, equiparabili alle terapie riparative per l’omosessualità. Anche l’approccio di “vigile attesa” che veniva tipicamente adottato con bambini e adolescenti è ritenuto superato e controproducente.
4. Gli interventi di transizione sono necessari (se non addirittura “salvavita”, visto l’elevato rischio di suicidio) ed efficaci, con un rapporto rischi/benefici nettamente favorevole. In particolare, i bloccanti della pubertà offrono un periodo di pausa e riflessione, senza rischi di rilievo e con una reversibilità praticamente completa. I casi di pentimento e “detransizione” sono molto rari, a testimonianza dell’efficacia degli interventi.
Esaminando la letteratura scientifica in quest’ambito da una prospettiva metodologica, diventa presto evidente che tutti i presupposti del modello affermativo sono basati su evidenze deboli, incerte, e spesso estremamente contraddittorie. In sintesi:
Le cause della disforia di genere
La ricerca in campo sessuologico ha evidenziato chiaramente che la disforia di genere non è una condizione unitaria, ma può essere l’esito di percorsi eziologici e di sviluppo estremamente diversi tra loro (per età di insorgenza, sesso biologico del paziente, orientamento sessuale, e motivazioni sottostanti; Lawrence, 2017; Zucker et al., 2016; Zucker, 2019). Per una panoramica introduttiva si può vedere questo articolo (tradotto in italiano) di Bailey e Blanchard. Paradossalmente data l’importanza cruciale di questo tema, negli ultimi anni è diventato sempre più difficile fare ricerca sulle cause della disforia di genere. Questo a causa di veri e propri tabù ideologici su questioni cruciali come quella dell’autoginefilia (la tendenza, in alcuni maschi biologici[1], a provare eccitazione sessuale al pensiero/fantasia di essere una femmina), o quella del contagio sociale negli adolescenti tramite scuole, gruppi dei pari, e soprattutto social media (Box 2).
In Italia: Social media e identificazione di genere (Box 2)
In uno studio recente, Mirabella et al. (2022) hanno esaminato le caratteristiche di 125 adolescenti identificati come transgender e/o non-binari, presi in carico presso l’ospedale Careggi di Firenze e il SAIFIP di Roma. Tra le domande fatte agli adolescenti c’era la possibilità di indicare i fattori che, secondo loro, avevano influenzato la loro identità di genere. In risposta, il 42.5% dei maschi biologici e il 52.4% delle femmine biologiche ha identificato i social media (YouTube, Instagram, ecc.) come un fattore determinante.
Inoltre, conoscere altre persone trans è stato indicato come determinante dal 30% dei maschi biologici e il 35.4% delle femmine biologiche. Questi dati sono chiaramente aperti a molteplici interpretazioni, compresa quella secondo cui i processi di trasmissione e contagio sociale giocano un ruolo nell’identificazione transgender. Tuttavia, è da notare come questa ipotesi non sia stata nemmeno presa in considerazione dagli autori dello studio..
L’associazione tra disforia di genere e disturbi mentali
La disforia di genere è associata a tassi molto elevati di disturbi d’ansia, depressione, disturbi alimentari, dipendenze, disturbi di personalità, disturbi dissociativi e sindromi dello spettro autistico. In contrasto con l’ipotesi del “minority stress”, le problematiche psicologiche e psichiatriche associate alla disforia di genere molto spesso iniziano a manifestarsi prima della disforia stessa, e tendono a permanere o diminuire solo debolmente in seguito alla transizione (ad es. Dhejne et al., 2011; Kaltiala-Heino et al., 2015; Kaltiala et al., 2023; Sevlever e Meyer-Bahlburg, 2019). Inoltre, patologie del neurosviluppo come l’autismo (ma anche idisturbi di personalità più gravi) hanno una forte base genetica, e pertanto non possono essere realisticamente considerate come delle conseguenze dello stigma e della discriminazione.
In Italia: La nota congiunta delle associazioni medico-scientifiche [Box 3]
Nel gennaio 2024, 12 associazioni mediche e scientifiche italiane (tra cui l’Associazione Medici Endocrinologi, la Società Italiana di Endocrinologia, l’Osservatorio Italiano di Identità di Genere, la Società Italiana di Pediatria Endocrinologia e Diabetologia e la Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza) hanno diffuso una nota congiunta sui bloccanti della pubertà.
Gli autori della nota fanno una serie di affermazioni nette e apparentemente autorevoli, ma in realtà controverse e scarsamente supportate dai dati. Per esempio (sottolineature mie):
“A causa dello stigma sociale e istituzionale e del disagio fisico, le persone adolescenti TGD sono una popolazione più vulnerabile dal punto di vista psicologico, con un rischio più elevato, scientificamente ben documentato, di sviluppare ansia, depressione, […] sino ad arrivare ad atti di autolesionismo e suicidio.”
In realtà, la direzione dell’associazione tra disforia di genere e altri disturbi mentali non è affatto chiara; l’ipotesi del “minority stress” (richiamata nel passaggio qui sopra) rimane largamente speculativa, ed è messa in dubbio dal fatto che i disturbi spesso emergono prima della disforia e tendono a migliorare poco o per nulla in seguito alla transizione. Inoltre, gli studi sui campioni più grandi sembrano indicare che il rischio di suicidio è legato più ai disturbi mentali associati alla disforia che alla disforia in quanto tale, e non diminuisce in modo sostanziale con la transizione (ad es. Biggs, 2022; Ruuska et al., 2024; Wiepjes et al., 2020).
“A molti purtroppo sfugge la natura assolutamente transitoria e largamente reversibile del trattamento con GnRHa, il cui obiettivo non è la castrazione chimica o influenzare le scelte dei giovanissimi o delle famiglie ma, al contrario, dar loro tempo per poter effettuare scelte più mature e ponderate.”
In realtà, gli effetti dei bloccanti della pubertà sullo sviluppo neurologico e cognitivo sono ancora praticamente ignoti (Baxendale, 2024); anche la reversibilità di alcuni effetti sullo sviluppo fisico è ancora in dubbio, il che rende questa affermazione a dir poco prematura. Ancora più importante è il fatto che quasi tutti gli adolescenti (più del 90%) che iniziano ad assumere i bloccanti passano poi agli ormoni cross-sex. Come ormai viene riconosciuto anche da alcuni sostenitori del modello affermativo, i bloccanti non forniscono solo una “pausa di riflessione” ma costituiscono invece un primo passo decisivo nel percorso di transizione medica (Box 4).
“questo tipo di terapia […] ha il serissimo scopo di evitare conseguenze negative sul benessere psicologico e fisico […] Infatti, dai dati della letteratura scientifica si evince che fino al 40% dei giovani TGD tenta il suicidio (cfr.James SE, et al. Na4onal Center for Transgender Equality. 2016), e che la terapia con triptorelina riduce del 70% questa possibilità (cfr. Turban JL et al. Pediatrics. 2020).”
In realtà, la cifra del 40% esagera di molto il rischio effettivo, perché non si riferisce ai tentativi di suicidio valutati da operatori clinici (più vicini al 10%), né tantomeno alle morti per suicidio (nettamente al di sotto dell’1% nella maggior parte degli studi; Biggs, 2022; Morandini et al., 2022; Ruuska et al., 2024). Le stime nell’ordine del 40% vengono da questionari di selfreport, che sono soggetti a notevoli distorsioni e spesso mescolano comportamenti suicidari, altri comportamenti autolesionistici e ideazioni suicidarie (che sono molto comuni, ma di solito non si traducono in concreti tentativi di suicidio; Klonsky et al., 2016, 2021).
Come è stato rilevato da diversi autori (ad es. Biggs, 2020b; Clayton et al., 2021), lo studio di Turban et al. (2020) non permette di trarre alcuna conclusione sul ruolo causale dei bloccanti rispetto alla suicidalità. I dati dello studio sono altrettanto compatibili con la possibilità (molto verosimile) che gli adolescenti con migliori profili di salute mentale (e quindi minor rischio suicidario) fossero proprio quelli che ottenevano più facilmente l’accesso ai bloccanti. Per una critica più generale dei problemi in questo ambito di ricerca si può vedere Jackson (2023).
I benefici degli interventi affermativi e della transizione
Negli ultimi anni, i dubbi sugli effettivi benefici degli interventi affermativi si sono moltiplicati nella letteratura scientifica. In molti casi, si sono osservati miglioramenti nella salute mentale ridotti o trascurabili, con una grande eterogeneità nei risultati (ad es. Biggs, 2020a; Dhejne et al., 2011; Kaltiala et al., 2023; Morandini et al., 2023; Sievert et al., 2023). Questo risulta meno sorprendente se si considera l’enorme varietà di profili, eziologie e percorsi di sviluppo che vengono raggruppati sotto l’etichetta di “disforia di genere”.
Alcuni studi di alto profilo che sembravano mostrare dei benefici generalizzati si sono rivelati poco convincenti ad un’analisi accurata (si veda ad es. Bränström e Pachankis, 2020 e i rilievi critici di Anckarsäter e Gillberg, 2020; Van Mol, 2020; Wold, 2020).
Persino le ricerche originali sull’efficacia del cosiddetto “protocollo olandese”, che hanno contribuito in modo determinante alla diffusione del modello affermativo, una volta esaminate in modo più dettagliato hanno evidenziato seri problemi rispetto all’interpretazione dei dati e alla credibilità dei risultati (Abbruzzese et al., 2023; Biggs, 2023).
Più in generale, la ricerca sull’efficacia degli interventi affermativi soffre di una serie di limitazioni importanti tra cui la mancanza di randomizzazione; gruppi di controllo del tutto assenti o inadeguati; controllo inadeguato per fattori confondenti; mancanza di confronto con altri tipi di trattamento; mancanza di follow-up a lungo termine; elevati tassi di perdita dei pazienti al follow-up; e la tendenza ad affidarsi ai risultati soggettivi di self-report e a non valutare allo stesso modo risultati positivi e negativi, giungendo a conclusioni distorte e selettive. Questi problemi hanno portato con tutta probabilità a enfatizzare i benefici a breve termine della transizione (che tendono a essere relativamente modesti sul piano clinico e suscettibili di importanti effetti placebo; Clayton, 2023), sottovalutando allo stesso tempo possibili conseguenze negative a lungo termine. Altri problemi metodologici sono specifici per certi interventi e non per altri. Ad esempio, il testosterone ha effetti antidepressivi e ansiolitici; la somministrazione di questo ormone nelle femmine biologiche può causare un temporaneo miglioramento dell’umore, che (in assenza di follow-up a lungo termine) può essere scambiato per un esito positivo della transizione stessa.
Ad oggi, diverse revisioni sistematiche della letteratura scientifica (condotte nel Regno Unito, in Svezia e in Germania) hanno raggiunto la stessa conclusione: la qualità metodologica e i risultati degli studi disponibili sono molto deboli, e non permettono di confermare i benefici degli interventi affermativi con alcun grado di certezza, a fronte dei molteplici rischi e dei costi a lungo termine (Ludvigsson et al., 2023; NICE, 2020a, 2020b; SBU, 2022; Thompson et al., 2023; Zepf et al., 2024). Anche le revisioni sistematiche dai toni più ottimistici (ad es. Baker et al., 2021; Doyle et al., 2022) sottolineano la debolezza metodologica degli studi e l’incertezza che ne consegue rispetto agli effettivi benefici dei trattamenti.
Le conseguenze della soppressione della pubertà
Come evidenziato dalle revisioni sistematiche (NICE, 2020; Thompson et al., 2023; Zepf et al., 2024), i benefici psicologici dei bloccanti della pubertà sono molto incerti, e questi farmaci non possono essere considerati in alcun modo dei “salvavita” come invece viene spesso fatto intendere (ad es. Box 3).
Un altro presupposto fuorviante è che i bloccanti si limitino ad offrire agli adolescenti uno spazio di “pausa” e “riflessione” e la possibilità di prolungare la valutazione psicologica (Box 3). In realtà, la quasi totalità degli adolescenti sottoposti al trattamento con i bloccanti (più del 90%) passa poi al trattamento con gli ormoni cross-sex (Brik et al., 2020; Butler et al., 2018; Carmichael et al., 2021; van der Loos et al., 2023; Wiepjes et al., 2018). Questi dati stanno portando la comunità scientifica a ripensare la soppressione della pubertà, non come una pausa temporanea ma come un passo decisivo (e in pratica non così “reversibile”) sulla strada della transizione medica (Box 4).
In Italia: La soppressione della pubertà come inizio della transizione medica [Box 4]
In un articolo del 2023, le dottoresse Ristori e Fisher dell’ospedale Careggi di Firenze notano che “Questi risultati [dello studio di van der Loos et al., 2023] potrebbero mettere in discussione l’uso di GnRHa come estensione della fase di valutazione e descrivere meglio questo trattamento come l’inizio di una transizione” (These results may question the use of GnRHa as anextension of the assessment phase and better describe this treatment as the start of a transition, p. 1266).
In un altro studio condotto su 36 adolescenti in trattamento presso il Careggi, Fisher e colleghi (2023) sottolineano come la soppressione della pubertà costituisca di fatto l’avvio di un percorso medico (anche se descritto come “reversibile”), con cambiamenti fisici rilevanti che risultano associati ai miglioramenti psicologici riportati dagli adolescenti: […] the rationale for treatment with GnRHa may not only be considered an extension of the evaluation phase, but also the start of a medical (even if reversible) gender-affirming path, especially in TGDA [transgender and gender diverse adolescents] whose puberty has already progressed (p. 1).
I tassi di pentimento e detransizione
Nella letteratura in supporto del modello affermativo, viene spesso ripetuto che pentimento (regret) e detransizione sono fenomeni rari, al di sotto dell’1% dei pazienti (ad es. Bustos et al., 2021). Purtroppo, il periodo di follow-up negli studi è spesso troppo breve, mentre la percentuale di pazienti che non si ripresentano al follow-up è molto elevata. Un altro problema cruciale è che la maggior parte dei dati a lungo termine si riferiscono ad una popolazione di pazienti molto diversa da quella attuale, prima dell’esplosione di casi di disforia avvenuta negli ultimi anni (soprattutto nelle femmine biologiche; Littman, 2021; Littman et al., 2023). La qualità metodologica degli studi in questo campo è generalmente bassa, e le stime più ottimistiche sono viziate da vari tipi di errori (Cohn, 2023; Expósito-Campos e D’Angelo, 2021).
Per tutti questi motivi, i dati disponibili devono essere interpretati con estrema cautela; in mancanza di studi adeguati, è semplicemente impossibile stimare in modo affidabile la percentuale di pazienti che detransizionano. Secondo alcuni autori, nella popolazione di pazienti attuale la quota potrebbe arrivare fino al 10-30%, ma tutte le stime (alte o basse che siano) rimangono molto incerte e non consentono di fare affermazioni precise (Cohn, 2023; Irwig, 2022). Inoltre, questo fenomeno è destinato a evolversi nel tempo, sia perché i ripensamenti tendono a non avvenire subito ma dopo diversi anni, sia a causa del recente slittamento verso un approccio sempre più affermativo e meno selettivo (e quindi inevitabilmente più esposto ad errori di valutazione).
In conclusione
Quello che emerge dalla letteratura è un quadro di sostanziale e pervasiva incertezza. I dati a supporto del modello affermativo sono deboli e viziati da importanti limiti metodologici, come è stato riconosciuto praticamente da tutti i gruppi di ricerca che hanno condotto delle revisioni sistematiche dell’evidenza. Ci sono dubbi fondati e crescenti sulle cause della disforia di genere, sui rischi e benefici della transizione, sugli effetti e implicazioni dei bloccanti, sui tassi di pentimento e detransizione, e così via (cfr. Brierley et al., 2024; Levine e Abbruzzese, 2023). In linea con questi cambiamenti nel panorama scientifico, diversi Paesi Europei e Stati degli USA stanno rapidamente invertendo la rotta rispetto al modello affermativo, e (più nello specifico) rispetto all’uso dei bloccanti della pubertà al di fuori di ambiti ristretti legati alla sperimentazione clinica.
Alla luce di quanto discusso fin qui, è possibile offrire delle raccomandazioni di massima, in vista della formulazione di linee guida per la disforia di genere nel nostro Paese. Ritengo che tali linee guida dovrebbero incoraggiare l’apertura a modalità alternative di trattamento, vista la mancanza di certezze su quali siano gli interventi più sicuri ed efficaci per affrontare la disforia di genere in diverse tipologie di pazienti. In mancanza di evidenze solide che i benefici dei trattamenti affermativi superano i rischi, è prudente e ragionevole prendere in considerazione delle restrizioni alla loro applicazione, soprattutto nel caso di pazienti minorenni e interventi invasivi (compresa la soppressione della pubertà, che viene effettuata in un periodo particolarmente critico per lo sviluppo fisico e psicologico e quasi sempre instrada gli adolescenti in un percorso di transizione medica). Questi trattamenti potrebbero essere consentiti nell’ambito di protocolli sperimentali dai criteri ben definiti, che permettano di raccogliere dati utili in forma sistematica e centralizzata, con adeguate procedure di controllo, randomizzazione e follow-up a lungo termine. Senza dati di qualità, non si potrà fare altro che continuare a muoversi a tentoni; questo sarebbe un grave disservizio nei confronti dei pazienti e delle loro famiglie.
[1] Non uso la formula “assegnato alla nascita” perché la ritengo scorretta, mistificante, e dettata da esigenze ideologiche piuttosto che scientifiche (il sesso di una persona non viene “assegnato” in modo più o meno arbitrario, ma semplicemente riconosciuto, conl’eccezione di rari casi in alcune condizioni intersex; per una discussione approfondita di questi temi si può vedere ad esempio Byrne, 2024).
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