Audizioni alla Camera sui bloccanti della pubertà: alcune domande per l’endocrinologa di Careggi

Durante le audizioni che sono state tenute la scorsa primavera alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati sul tema della disforia di genere è intervenuta anche Linda Vignozzi, professoressa di endocrinologia presso il Dipartimento di Scienze biomediche, sperimentali e cliniche “Mario Serio” dell’Università di Firenze, città nella quale si trova l’Ospedale Careggi, finito alle ribalte della cronaca per le criticità rilevate dagli ispettori ministeriali circa la somministrazione dei bloccanti della pubertà.

Martedì 7 Maggio 2024 la professoressa Vignozzi, in audizione alla Camera, pronunciava la seguente affermazione:

“È vero che c’è una diatriba internazionale al riguardo, ma è vero anche che sono usciti dei nuovi studi molto grandi, uno mi piace citarlo, di più di 20.000 casi, che è stato pubblicato in una prestigiosa rivista internazionale. È una casistica americana in cui si evidenzia in più di 20.000 casi che il rischio suicidario si riduce nei casi che sono stati trattati con triptorelina.”

Al primo ascolto, il messaggio lanciato dalla Prof.ssa Vignozzi potrebbe non essere stato inteso nel modo corretto, in quanto l’accademica sembrerebbe sostenere che il rischio suicidario si sarebbe ridotto in 20.000 casi trattati con triptorelina. O almeno così potrebbe capire chi non sia addentro alla materia, come probabilmente non lo è buona parte dei parlamentari che presenziavano come uditori agli incontri tenutisi alla Camera. 

A seguito di questa affermazione, anche noi genitori di GenerAzioneD vorremmo capirne di più, perché riteniamo fondamentale che in una tematica così delicata, come i trattamenti farmacologici da somministrare ai minori e ai giovani adulti, i messaggi debbano essere veicolati in modo chiaro e corretto, con una limpidezza espressiva che non permetta fraintendimenti. Soprattutto quando tali affermazioni vengono rese di fronte a una platea che ha il compito di assumere importanti decisioni sull’utilizzo o meno di quei trattamenti. 

In gioco ci sono le vite dei nostri figli, per cui riteniamo importante offrire la possibilità alla Prof.ssa Vignozzi di chiarire meglio il suo pensiero.

Pertanto, le chiediamo:

1. Ci può cortesemente comunicare a quale studio si riferisce la sua affermazione?

2. Ci può rassicurare sul fatto che la sua affermazione non riguardi lo studio di Turban et al. del 2020, ma uno studio nuovo, rigoroso e più recente?

3. Nel caso invece si sia voluta riferire proprio allo studio di Turban et al., potrebbe esplicitare più chiaramente la propria affermazione, precisando quanti dei 20.000 casi da lei menzionati sarebbero stati effettivamente trattati con i bloccanti della pubertà e successivamente studiati da Turban?

Purtroppo, sul tema della medicalizzazione dei bambini e degli adolescenti che si auto-identificano come transgender stiamo assistendo a una polarizzazione sempre più estrema del dibattito, nel quale entrano in gioco tornaconti politici opposti, interessi economici e di carriera, nonché diatribe fra attivisti contrapposti.

L’associazione GenerAzioneD ritiene che in questa vicenda sia fondamentale il ruolo dei professionisti medici, i quali dovrebbero assumere centralità informativa, attendendosi a rigorosi standard clinici e a forme comunicative limpide e inequivocabili.

D’altronde, quando un genitore deve esprimere il proprio consenso all’utilizzo di un trattamento farmacologico per il proprio figlio, è fondamentale che possa decidere in modo pienamente consapevole sulla base di informazioni esaustive e chiare circa i rischi e i benefici di quello specifico trattamento. Per poterlo fare è necessario che sia edotto sulle più recenti evidenze scientifiche. 

Se viene citato uno studio del 2020, come quello di Turban et al., che nell’aprile 2024 è stato valutato di “bassa qualità” dalla più grande e articolata revisione scientifica mai effettuata in tale campo (la “Cass Review”), è doveroso aspettarsi che il professionista medico che ne fa menzione faccia pieno esercizio di chiarezza informativa, menzionando anche le conclusioni della più recente revisione che invece conferma la pericolosità dei bloccanti della pubertà, a tal punto da comportarne l’immediata sospensione della somministrazione da parte del Servizio Sanitario inglese. Riteniamo ciò un dovere, poiché tale mancanza potrebbe ingenerare convinzioni errate nell’interlocutore che ascolta quelle affermazioni parziali. 

Non sappiamo se lo studio richiamato dalla Prof.ssa Vignozzi sia effettivamente quello di Turban et al., ma approfittiamo dell’occasione per precisare che dei 20.000 transgender interpellati – con sondaggio telematico a risposta multipla predeterminata – solo 89 avevano dichiarato di aver assunto i bloccanti della pubertà, come si può dedurre dalla seguente tabella redatta dallo stesso Turban.

Riteniamo quindi importante sottolineare che lo studio di Turban et al., riguarda solamente 89 casi trattati con i bloccanti della pubertà, a nulla rilevando gli altri 20.000, interpellati su altre questioni. 

Si tratta quindi di un numero esiguo di casi e per di più certamente sovrastimato, in quanto lo stesso studio di partenza rivela che la gran parte delle persone intervistate (ben il 73%), nelle risposte al sondaggio, aveva confuso i bloccanti della pubertà (che si somministrano fino ai 16 anni) con gli ormoni cross-sex[1], avendo più di 18 anni al momento della presunta assunzione. Ciò ha comportato un ulteriore indebolimento delle conclusioni dello studio di Turban, le cui innumerevoli criticità sono peraltro state evidenziate da copiosa letteratura scientifica.

Poiché la Prof.ssa Vignozzi ha dichiarato alla Camera dei Deputati che le “piace citare” tra i “nuovi studi” proprio quello dei 20.000 casi americani, non ci pare possibile che si volesse riferire a quello, qualitativamente molto debole, di Turban del 2020, dimenticando invece di menzionare la Cass Review dell’aprile 2024, notoriamente ben più autorevole per qualità e quantità dei contenuti. 

Tenuto conto che sul tema, come afferma la stessa Prof.ssa Vignozzi, esiste “una diatriba internazionale al riguardo”, riteniamo che l’approccio corretto circa la medicalizzazione di bambini e adolescenti disforici dovrebbe essere improntato all’estrema cautela e che tale prudenza dovrebbe riflettersi anche in ambito comunicativo. 

Nella certezza che la Prof.ssa Vignozzi vorrà cogliere l’occasione per chiarire al meglio le proprie affermazioni, desideriamo ricordare che i professionisti hanno un’enorme responsabilità in questa vicenda, in quanto i genitori, perennemente avvinti dal timore di non decidere il meglio per i propri figli, si trovano spesso nell’insormontabile difficoltà di comprendere quale sia l’informazione corretta ricevuta e quale sia invece quella lacunosa, travolti da una tempesta social che confonde il dibattito con input contradditori e faziosi. In questo quadro di perpetua ambiguità, le persone più autorevoli devono farsi carico del dovere di colmare questo vuoto informativo, divulgando le evidenze scientifiche nel modo corretto e ponendo fine a tanta ingiustizia. 


[1] Così riporta lo studio di James, da cui Turban ha attinto i dati: “Mentre i farmaci che bloccano la pubertà sono di solito utilizzati per ritardare i cambiamenti fisici associati alla pubertà giovani di età compresa tra 9 e 16 anni prima di iniziare la terapia ormonale sostitutiva, una grande maggioranza (73%) degli intervistati ha riferito di aver preso farmaci che bloccano la pubertà in Q.12.9 (domanda 12.9, ndr) e di averlo fatto dopo i 18 anni in Q.12.11. Ciò indica che la domanda potrebbe essere stata interpretata male da alcuni intervistati che hanno confuso i bloccanti della pubertà con la terapia ormonale somministrata agli adulti e agli adolescenti più grandi” (pag. 130).

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