“Non nuocere”, la testimonianza della madre di una ragazza Asperger

Nell’infanzia mia figlia è solare, serena, frequenta con piacere i compagni anche fuori dalla scuola. Ha un carattere forte, determinato, cocciuto, tanto che talvolta non riesce a gestire la rabbia, ma non tanto da farci pensare a qualche disturbo: la consideravamo capricciosa e testarda, forse sottovalutando i sui “punti di debolezza” e sopravalutando i suoi “punti di forza”. Ha interessi vari, è autonoma e brillante a scuola: anche se poco studiosa, ottiene ottimi risultati. Manifesta il suo primo disagio per la crescita del seno, verso i 12 anni, tanto da interrompere ogni attività sportiva perché lo percepisce ingombrante, ma comunque continua a passare le estati in costume ed è a proprio agio in famiglia, con le amiche di sempre e, durante la scuola media, con due fidanzatini coetanei. 

Quando inizia a frequentare il liceo perde il gruppo affiatato di compagni che conosce da sempre e si ritrova sola. Si isola sempre di più, abbandona i suoi hobby, non si impegna in nulla.

Non è a suo agio nella nuova realtà scolastica della grande città (dove entrano solo ragazzi e ragazze con valutazioni alte, più alla moda, disinibiti e determinati di lei). I primi mesi va a scuola volentieri, truccata e curata, e si innamora di un ragazzo di una scuola vicina, ma poi lui scompare nel nulla. Diventa lenta nello svolgimento di qualsiasi attività (anche il semplice lavarsi, vestirsi, prepararsi per tempo per uscire), si arrabbia con facilità e diventa aggressiva, anche violenta in particolare con me -sua madre- che le manifesto (ammetto, frequentemente) le mie preoccupazioni per l’eccessiva solitudine, il mancato rispetto delle regole e l’insoddisfacente impegno, incitandola senza successo a “scrollarsi”. Dato che la situazione peggiora di mese in mese, invitiamo F. ad incontrare uno psicologo, ma lei si rifiuta sempre. Preoccupati per il suo equilibrio e la sua instabilità d’umore, decidiamo di prendere comunque appuntamento per noi genitori e facciamo diverse sedute con una psicologa, che, sulla base di quanto da noi riferito (difficoltà relazionali, isolamento e la sbalzi d’umore), riterrebbe opportuno incontrare nostra figlia. Ogni volta che si presentano episodi preoccupanti d’ira e di scontro, esortiamo nostra figlia a incontrare la psicologa, ma il suo rifiuto persiste.

F. sembra però consapevole del suo disagio, infatti trovo sul computer di famiglia alcune ricerche con parole chiave quali “ansia”, “disforia dell’umore”, “disagio”.

Nonostante fossimo contrari, a 16 anni riceve il primo smartphone per permetterle di partecipare agli scambi di classe via whatsapp, che fino a quel momento avvenivano sul mio smartphone con conseguente disagio di mia figlia che, quando io non ero a casa per lavoro, perdeva conversazioni di centinaia di messaggi e rimaneva esclusa.

Grazie al parental control, scopro che le sue ricerche vertono su “disforia dell’umore” e dopo un po’ – probabilmente per gli algoritmi di ricerca – su “disforia di genere”.

Inizia a fare test online per stabilire in quale percentuale è femmina e maschio, li rifà ripetutamente modificando le risposte per far aumentare la percentuale maschile. Comincia ad utilizzare i social per seguire influencer che spacciano la transizione come la panacea di tutti i mali, il rimedio di ogni disagio sociale e individuale, e che rispondono in maniera offensiva, denigrante, violenta a chi manifesta opinioni o considerazioni, argomentate e pacate, non condivise da loro. 

Non appena me ne rendo conto chiedo chiarimenti, ma lei nega il suo coinvolgimento. Propongo di limitare l’uso dei device, ma reagisce infuriandosi e, quando le vengono sottratti, reagisce con violenza verso gli oggetti, verso di me e suo padre, il che porta a crescenti difficoltà nella nostra relazione.

Pochi mesi dopo, ancora molto a disagio nella nuova scuola, mi dice di avere la disforia di genere e di voler fare la transizione. Me ne parla con convinzione, ma con parole che non le appartengono e frasi recitate a memoria. Le dico che vorrei aiutarla e cerco informazioni, ma sono disorientata. Le faccio presente che non sono competente, che non sono in grado, che bisogna rivolgersi a uno psicologo e finalmente F. inizia un percorso psicoterapeutico, che durerà oltre due anni e mezzo (a distanza durante la pandemia) con notevoli benefici, tanto che F. sembra aver trovato un suo equilibrio e, già dopo le prime sedute, non accenna nemmeno più alla disforia di genere, ma si concentra sulla solitudine – a tratti amata e cercata, a tratti subita-, sulle difficoltà nelle relazioni, sugli sbalzi di umore. 

Viene anche effettuato un test psicologico da cui emerge un elevato QI e grandi difficoltà nella sfera relazionale e sociale. Avuta questa diagnosi, F. manifesta serenità e benessere, ma resta introversa e con scarse relazioni sociali, complici anche l’isolamento durante la pandemia e la DaD. La psicologa riferisce che in F. persistono momenti di ansia, crisi di identità (si fa domande sul senso della vita, non riesce a trovare il suo spazio nel mondo, si presenta con una corazza ma è estremamente fragile e insicura perché non riesce né a sentirsi in sintonia con i pari), a tratti depressione. Non riesce a realizzare progetti che frullano nella sua testa (band, pittura, escursioni nella natura, viaggi con amici che non ha): ha difficoltà a mettere in pratica e a esprimersi con gli altri come vorrebbe; è frustrata per non riuscire a portare avanti la sua battaglia contro gli stereotipi e la ribellione contro la società patriarcale (le viene anche consigliata la partecipazione ad associazioni, volontariato: le idee le piacciono, ma non riesce a prendere l’iniziativa).

Non emerge però alcuna disforia di genere.

Nel frattempo, il rientro a scuola in presenza non è facile, perché deve ricucire relazioni e non è ben attrezzata per farlo. Il PC e lo smartphone avevano invaso gran parte del suo tempo, anche a causa della DaD, e diventa praticamente impossibile sottrarglieli, pena lo scatenarsi di una violenza brutale contro chi si permette di provarci (dice che ormai è maggiorenne e può fare quello che vuole). Tante volte, per non fomentare la sua rabbia nei nostri confronti, lasciamo correre, ma ci rendiamo conto della pervasività dell’uso della tecnologia (influencer social, fake, giochi di ruolo) nella sua psiche.  

In primavera decide di interrompere bruscamente la psicoterapia (a suo dire inconcludente perché non la portava a definire il suo disagio, e perché io rimanevo in contatto con la psicologa nonostante lei fosse maggiorenne). Inizia a manifestare ansia e preoccupazione per il suo futuro: per l’esame conclusivo, per il dopo.

Si rivolge, all’insaputa di noi genitori, a un’altra psicologa per dare un nome al suo disagio e ottiene la diagnosi di sindrome di Asperger (autismo ad alto funzionamento).

Ormai in preda all’ansia da prestazione (è consapevole di impegnarsi poco nello studio, cosa di cui si è spesso vantata), presenta la diagnosi a scuola per ottenere strumenti compensativi all’esame, ma ormai è tardi. Essendo F. maggiorenne, noi siamo all’oscuro di tutto: non acconsente a informare la famiglia perché sempre più desiderosa di affrancarsene, in quanto ci ritiene intrusivi e insistenti. Insistiamo affinché si curi, visto che – dopo la pandemia e soprattutto l’interruzione della psicoterapia – manifesta sempre maggiore introversione, dipendenza da internet, rabbia e disforia dell’umore.

E’ riemerso anche il discorso della disforia di genere e della transizione come soluzione a tutto il suo disagio, e ne parla sempre come un libro stampato; sembra recitare a se stessa un mantra, riportando a memoria frasi e assunti presenti in rete, senza alcuna rielaborazione, incapace poi di rispondere a semplici domande sull’argomento e dimostrando confusione, incertezze, dubbi.

Rispetto a quando aveva 16 anni, ora non vuole più diventare un uomo, anche perché sa che non potrà mai diventarlo davvero (ma solo sembrarlo); le va bene avere l’apparato genitale femminile, ma non vuole il seno, che costringe nel binder e che sembra rientrare negli stereotipi di genere che lei detesta. In tutte le conversazioni su società, costume, attualità è sempre dalla parte delle donne contro la società patriarcale e misogina, e le dà fastidio far parte del sesso debole.

Non riesce a rendersi concretamente partecipe della difesa dei diritti, ma subisce una realtà che non le piace, infierendo su se stessa.

Le diciamo (sia le psicologhe sia i genitori) che in primis bisogna affrontare i problemi psichici diagnosticati per arrivare a un equilibrio che le consenta fare chiarezza dentro di sé; cerchiamo di farle capire che nella vita è necessario imparare ad accettarsi, senza rincorrere obiettivi di eccellenza o standard di bellezza impossibili, rischiando una continua frustrazione e la depressione. Pensiamo sia urgente affrontare le cause originarie del suo disagio, presenti da tempo e ora non più oggetto di psicoterapia, e siamo convinti che la transizione non sarebbe risolutiva, ma anzi la aggraverebbe per via di terapie ormonali durature e devastanti, interventi irreversibili, ospedalizzazioni, nonché ancora maggiori difficoltà di relazione e di accettazione nella vita sociale, familiare, lavorativa. 

Alla maturità affronta gli scritti, ma non riesce ad affrontare l’orale poiché colpita da mutismo per 3 settimane. A questo punto, spaventata, accetta di andare da uno psichiatra e psicoterapeuta, che diagnostica, come principali cause del forte disagio, ansia sociale e depressione. Dopo due settimane di terapia farmacologica, ricomincia a parlare e progressivamente lo stato di salute generale migliora, tanto che in autunno decide di iscriversi all’università e conduce una vita equilibrata, senza più parlare di disforia di genere, dedicandosi alla vita all’aria aperta e alla musica. Vederla serena, rasserena anche noi, dopo tanta angoscia. 

Per vie traverse vengo a conoscenza della diagnosi di Asperger, mi colpevolizzo per non aver capito prima, e le propongo di cercare insieme delle strategie per aiutarla, ma lei rifiuta: dice di volersela cavare da sola. Più volte interrompe irresponsabilmente la terapia farmacologica, mente, non si cura, non porta a termine gli impegni presi (nei periodi in cui smette la terapia non studia, non dà esami, si isola…).

A 20 anni cambia radicalmente aspetto, si taglia i capelli corti, indossa sempre il binder, boxer maschili, vestiti over size, orecchini e piercing.

Ogni volta che smette i farmaci di nascosto si riparte da capo: ricominciano le crisi di rabbia esplosiva, la violenza e le discussioni in famiglia. Più volte pensiamo di chiamare un’ambulanza o le forze dell’ordine, ma F. ci prende dalle mani con violenza il telefono, lo smonta, lo nasconde, e noi ci tratteniamo temendo per il suo equilibrio fragilissimo.

Scopriamo che ha smesso definitivamente anche la psicoterapia e non accetta di riprendere a curarsi.

Inoltre si gratta continuamente la pelle del viso creando lesioni che non guariscono mai, come volesse sfigurarsi o cancellarsi. Passa le giornate su device tecnologici, segue le lezioni all’università, ma non riesce a sostenere gli esami. Riaffronta il discorso della disforia di genere quando scopre, grazie alla relazione con una ragazzina molto più giovane di lei e con problemi psicologici anche lei, di essere bisessuale o omosessuale. Mescolando confusamente sesso e genere (strano per lei che parlava di ciò con cura enciclopedica) e il suo disequilibrio psichico si aggrava (si presenta come maschio in università e con la fidanzatina, mentre in famiglia e con i pochi amici storici è femmina) fino ad arrivare a distorcere sempre più frequentemente la realtà. Sono preoccupata, quindi sento lo psichiatra che l’aveva in cura che mi dice che F. “rischia di brutto” se non assume i farmaci prescritti.

Il muro con noi genitori è sempre più alto. F. contatta una psicologa affermativa con la quale inizia un percorso, nonostante noi non intendiamo pagare le sedute fin quando non accetterà di farcela conoscere. A fronte della nostra posizione, una sera F. scappa di casa, la ritroviamo nella notte grazie alla collaborazione di familiari e amici.

Il giorno dopo decide di volersi ricoverare e si presenta al pronto soccorso, dove riesce a farsi ricoverare raccontando il falso, ovvero di aver tentato il suicidio ingerendo farmaci perché noi genitori non accettavamo la transizione.

Alle dimissioni le dicono che deve essere supportata per accettare la sua neurodivergenza e viene indirizzata da uno psichiatra del CSM, dove offrono anche supporto psicologico a noi genitori, che accettiamo ben volentieri perché ora sappiamo che nella sua condizione è necessaria una sinergia tra la persona, lo psichiatra, lo psicologo e la famiglia.

F. per ora non ci ha dato la la possibilità di fare questo indispensabile percorso d’équipe e temiamo che lei stia facendo coping – tipico degli Asperger – focalizzando l’attenzione solo sull’autodiagnosticata incongruenza di genere.

Ansia sociale e da prestazione, desiderio di corpo androgino e dismorfismo, depressione, disforia dell’umore, procrastinazione, divario tra maturità cognitiva e immaturità emotiva-relazionale sono caratteristiche riconducibili all’Asperger, acuiti dalla diagnosi tardiva e dalla mancanza di terapia, ma F. è inconsapevole della necessità prioritaria di un percorso per accettarsi come è. 

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