Suicidio. Nuovi studi, vecchi studi e un mito intramontabile

di Lisa Selin Davis, 21 febbraio 2024


Non so quando l’ho sentito per la prima volta. Forse nel 2020, quando ho iniziato a scrivere di bambini trans per diversi importanti media. Intervistavo genitori che mi dicevano: “Preferisco avere un figlio trans vivo che una figlia cis morta” – o viceversa.

Beh direi, pensavo. Ma… la scelta è davvero così… binaria? Non ero nella posizione di questionare, dal momento che tutti i professionisti che intervistavo pronunciavano la stessa frase. E, in effetti, molti dei ragazzi in questione avevano manifestato tendenze suicidarie, anche se non avevano concretamente messo in pericolo la propria vita. I genitori erano terrorizzati. I ragazzi erano angosciati.

La cosa ancora più rilevante, che mi è stata raccontata dai genitori e da alcuni ragazzi, è che i medici proponevano le cure per l’affermazione del genere come l’antidoto a questa tendenza. I medici stessi prospettavano lo scenario in cui il bambino o l’adolescente sarebbe morto per sua volontà in assenza di interventi medici e psicologici. Sostenevano che l’affermazione dell’identità di genere del bambino costituisse uno scudo protettivo: le cure di affermazione di genere come deterrente per il suicidio.

Un nuovo articolo scientifico proveniente dalla Finlandia contesta l’assunto che tali interventi siano salvavita. Lo studio in questione ha esaminato i decessi di adolescenti seguiti per problemi di genere tra il 1996 e il 2019, confrontando i tassi di suicidio e morte con quelli di un gruppo di controllo. I tassi di suicidio negli adolescenti che si sono rivolti a loro per problemi di genere erano più alti rispetto al gruppo di controllo. Tuttavia, quando si è fatto il confronto per i problemi di salute mentale, le differenze sono letteralmente scomparse. Vale a dire che i ragazzi con problemi di salute mentale sono a rischio di ideazione suicidaria, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno problemi di genere.

Effettivamente, nel suo report sulla medicina di genere giovanile nel Regno Unito, la dottoressa Hilary Cass avvertiva che “l’oscuramento diagnostico” (di cui ho scritto per Unherd) era diventato un problema: una volta che entra in gioco il genere, tutte le altre diagnosi vengono ignorate.

Quando si presentano con la disforia di genere (GD), i bambini e i giovani possono incorrere nell’oscuramento diagnostico nel quale i problemi compresenti rischiano di non essere affrontati mentre ogni intervento professionale si concentra esclusivamente sull’identità di genere. “Nella mia esperienza, una volta che i bambini manifestano un dubbio sul loro genere, questo diventa la questione centrale e ogni altro problema di salute mentale o fattore psicosociale viene pressoché ignorato”. – Un pediatra

Molteplici condizioni di salute mentale comportano tassi elevati di ideazione suicidaria; se non vengono adeguatamente gestite, continueranno a presentarsi.

Ho passato gli ultimi sei mesi a cercare informazioni sulle origini dei concetti, degli slogan e dei messaggi della guerra culturale sul gender giovanile, ma non sono ancora riuscita a capire da dove venga il “transizione o morte”. (Se per caso sapete quale sia stata la prima volta in cui è stato usato, fatemelo sapere – in particolare modo se si parlava di bambini). So che molti pazienti adulti si istruivano tra loro su come parlare ai medici per ottenere gli interventi chirurgici e i farmaci desiderati. Ma questa narrazione del suicidio dei giovani era già presente agli albori delle cure per l’affermazione del genere giovanile nel nostro Paese; il dottor Norman Spack l’addusse a motivazione per importare negli Stati Uniti la terapia transgender per adolescenti. Le prime notizie sulla cura reiterarono il mito senza verificarne la fonte, raccontando che i ragazzi transgender avevano il 50% di possibilità di suicidarsi prima dei 20 anni.

Ho motivo di ritenere che queste statistiche provengano da sondaggi anonimi condotti su donne transessuali adulte – ovvero da ricerche oltremodo distorte e di bassa qualità – e da studi di follow-up condotti su persone che hanno effettuato la transizione in età adulta. Spack e altri hanno ipotizzato che l’alto tasso di suicidi portati a termine tra gli adulti transizionati potesse essere visto come una prova di controllo, pur non essendoci un gruppo sperimentale che avesse subito la transizione nell’adolescenza con poterlo confrontare. Si è trattato di un enorme salto ideologico: visto che con gli adulti non hanno avuto buoni risultati, bisogna intervenire prima. È stata data la massima importanza al “passing” (passare come persona del sesso desiderato), presupponendo che il poter essere riconosciuti dagli estranei come membri del sesso opposto avrebbe determinato una buona salute mentale.

Allo stesso tempo, e in un certo senso contraddittoriamente, questa era anche la motivazione alla base dei cambiamenti culturali e sociali volti a favorire una maggiore accettazione delle persone transgender. In questo modo, non ci sarebbe stato il minority stress a minare la loro salute mentale. Più tolleranza dovrebbe portare a una minore esigenza di passare… giusto?

Si sono verificate entrambe le cose. Si è intervenuti precocemente (sui giovani), e allo stesso tempo c’è stato un massiccio spostamento culturale in favore del riconoscimento dell’idea di identità di genere, attualmente sancita dalla politica e dalla legge. Si sarebbe dunque dovuto assistere a una diminuzione dei comportamenti suicidi e alla dimostrazione che, come sostengono gli attivisti, le cure per l’affermazione del genere sono “salvavita”.

Invece il tasso di suicidi riportato nell’unico studio di follow-up a lungo termine effettuato negli Stati Uniti è il più alto finora: due su 315, un dato minimizzato nel documento e non riportato dalla stampa mainstream. La storia che mi tormenta di più è quella di Abigail Martinez e di sua figlia Yaeli. Yaeli era stata allontanata da casa sua (dai servizi sociali) e data in affidamento a causa della riluttanza della madre ad affermarla a livello psicologico e medico. Yaeli ha subito una transizione medica ed è morta suicida. Questa storia è stata raccontata solo dai media conservatori.

Avremmo dovuto leggere una serie di articoli che mettevano in discussione le cure per l’affermazione del genere come prevenzione del suicidio. E invece no. Il binomio transizione-morte continua a circolare, spaventando i genitori e spingendoli a fare scelte che vanno contro il loro istinto, convincendo i bambini che c’è un solo modo per liberarsi dall’angoscia.

La dottoressa Cass ha mostrato che ci sono molti strade che conducono alla disforia di genere e altrettante che consentono di uscirne. Com’è che la stampa non informa le persone? Perché non lo fanno i medici che affermano il genere? “Dammi quello che voglio o mi uccido” è una delle più classiche forme di abuso, ma da quando una tale espressione viene usata da un medico nel nome di un bambino?


Leggi l’articolo originale su Broadview, il canale Substack di Lisa Selin Davis, autrice di “TOMBOY: The Surprising History & Future of Girls Who Dare to Be Different.” Firma del NYTIMES, WSJ, WaPo, Salon, HuffPost, Time, CNN e altri. Attempting to report on gender issues in a more balanced way than the right or left media.

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