Adolescenti transgender: dal 2018 al 2021 erano triplicati, a fine 2023 non sappiamo più niente
I dati nazionali su quanti siano i bambini e adolescenti che si rivolgono ai centri per la disforia di genere italiani non sono disponibili. Non è dato sapere quanti ragazzi abbiano effettuato la transizione sociale e, di questi, quanti abbiano cominciato una cura con i bloccanti della pubertà (utilizzo off-label della triptorelina) oppure direttamente con ormoni cross-sex. Non si sa quanti dei giovani trattati con i bloccanti siano poi passati all’assunzione di ormoni del sesso opposto, o siano poi tornati al sesso di nascita. Soprattutto, non si hanno dati sugli effetti positivi di questi trattamenti sulla salute mentale dei giovani che si rivolgono a questi centri e vengono ivi incoraggiati ad affrontare una medicalizzazione importante -e solo in parte reversibile- per sfuggire a una sofferenza psicologica tale da metterli a rischio di suicidio o semplicemente per riconoscersi nel proprio corpo.
Era la primavera del 2022, quando durante la trasmissione Rai “Via delle storie”, in un episodio intitolato “Giovani in lotta con il proprio corpo” e andato in onda esattamente il 25 aprile, apprendevamo che il SAIFIP (Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica) aveva registrato un aumento del 315% di accessi di adolescenti dal 2018 al 2021. Davanti a questo dato, che sarebbe stato allarmante per una qualsiasi condizione che necessiti intervento medico, la responsabile del centro romano Maddalena Mosconi tranquillizzava gli spettatori sulla base del fatto che si trattasse di un fenomeno internazionale dovuto alla maggiore accettazione sociale delle persone transgender; “stiamo assistendo a un cambiamento culturale importante” diceva, “le famiglie non si vergognano più a portare i loro figli a osservare questa caratteristica, non la negano più come un tempo”.
Da genitori di adolescenti, alcuni dei quali trans identificati, avevamo inviato alla trasmissione le nostre domande e perplessità.
Quanta parte di questa crescita negli accessi si riferiva a femmine che si sentivano maschi (e non viceversa come avvenuto storicamente fino a poco tempo fa)? Per la nostra esperienza, erano sempre di più femmine che, senza un passato di disforia nell’infanzia, si presentavano con un nuovo nome maschile, i capelli corti e il seno fasciato in un binder o con il tape.
E non era forse sospetto o preoccupante che, proprio mentre erano rinchiusi nelle loro stanze per via dei lockdown, passando il tempo sui social – dove le identità di genere proliferano e vengono glorificate e proposte come spiegazione a qualsiasi disagio – così tanti ragazzini si fossero convinti di essere nati nel corpo sbagliato?
Se per il Prof. Lancini dell’Associazione Minotauro, anche lui intervistato in trasmissione, “adattarsi alle richieste che provengono dai ragazzi” era semplicemente un’inevitabile conseguenza dei tempi che corrono, altrettanto inevitabili (nonostante si dica per rassicurare i genitori che “non sempre le persone transgender intervengono sul proprio corpo”), sembravano essere anche le cure mediche a vita: “la terapia ormonale è desiderata da tutti“ diceva Mosconi, “perché porta dei grandi cambiamenti”.
Alla faccia dei “team multi-disciplinari” che dovrebbero verificare che la transizione sia la scelta giusta per il singolo caso (come se fosse facile o addirittura possibile in così giovane età), la stessa Mosconi ammetteva che la terapia ormonale si poteva cominciare dopo una fase di “conoscenza reciproca”, senza quindi un vero e proprio percorso psicologico. D’altra parte, da diversi anni la disforia di genere non è più considerata un disturbo, e la sua “diagnosi” ormai è in carico solo al paziente e dipende esclusivamente dal suo percepito, anche se si tratta di un bambino o di un adolescente.
In nome dei diritti individuali, dell’accettazione e del politically correct, gli adulti hanno alzato le mani e smesso di proteggere i bambini e ragazzi in crisi di identità, di farsi domande sull’origine del disagio e perfino di aspettare per vedere se persisterà oltre l’adolescenza (i dati dicono che, in assenza di interventi, quasi sempre la disforia passa con la crescita). E nemmeno sembrano occuparsi delle conseguenze della transizione medica.
Mosconi asseriva che “per fortuna i rischi e le complicazioni sono in percentuale molto bassa”, commentando l’esperienza problematica di Dalia – donna transgender di 32 anni intervistata come caso di transizione di successo – che raccontava di essere finita in terapia intensiva per una trombosi a pochi mesi dall’inizio dell’assunzione della terapia ormonale.
Nessuna menzione all’irreversibilità dei cambiamenti dettati dagli ormoni, e nemmeno all’infertilità/sterilità. Nessun dubbio sul futuro funzionamento sessuale dei giovani ai quali viene bloccata la pubertà, nonostante lo stesso chirurgo transessuale Marci Bower avesse recentemente avvisato:
“Ogni singolo bambino che è stato bloccato allo stadio 2 di Tanner non ha mai sperimentato l’orgasmo… Voglio dire, si tratta davvero di ZERO”.
La responsabile del SAIFIP Mosconi citava però la chirurgia:
“I maschi transgender vogliono quasi tutti fare la mastectomia”.
Via libera quindi alla rimozione organi vitali sani sulla base di una decisione presa in adolescenza (quando il cervello ancora non si è sviluppato del tutto, cosa che la scienza valuta accadere intorno ai 25 anni). Non veniva detto che quasi sempre si rende necessaria anche l’isterectomia, per via dell’assunzione di ormoni.
Nonostante le nostre reazioni di genitori ai tempi non avessero destato nessuna riflessione o risposta, in questi anni abbiamo lavorato per creare l’associazione GenerAzioneD con l’intento di promuovere il dibattito e l’informazione.
Più di 100 famiglie che hanno un figlio o una figlia che si dichiara transgender o non binary ci hanno contattati, in quanto ritengono che i loro figli non stiano ricevendo la giusta assistenza, ma che piuttosto vengano spinti da un sistema affermante verso la transizione, con l’aspettativa che essa risolverà i loro problemi. Molto spesso si tratta di ragazzi che hanno alle spalle traumi, che soffrono di diagnosi psichiatriche o presentano neurodiversità.
Diversi giornalisti ci hanno intervistati e hanno scoperto le nostre verità (e che non siamo ignoranti, omofobi né bigotti). In pochi ci hanno poi pubblicato.
Nel frattempo, la gran parte dei paesi pionieri dei protocolli affermativi di genere – gli stessi adottati ancora oggi in Italia – davanti a un folle aumento delle richieste e al fenomeno crescente dei detransitioner (persone che si pentono della transizione e desiderano tornare al sesso biologico) ha rivisto le proprie linee guida, dando sempre più risalto a un approccio psicologico cauto ed esplorativo come preferenziale e prioritario rispetto alla transizione sociale e medica. Per arrivare a un tale stravolgimento dei protocolli, sono state fatte revisioni scientifiche delle casistiche dei centri per la disforia dei diversi paesi, le quali hanno mostrato la fallibilità e la scarsità di evidenze alla base dell’approccio olandese alla disforia di genere, cogliendone i rischi per questa nuova coorte di pazienti, ben diversa dai transessuali per i quali era stato messo a punto in origine.
Nonostante diverse voci provino a sollevare la questione (le famiglie, alcuni giornalisti televisivi, le femministe radicali, Arcilesbica e anche diverse persone transessuali), in Italia i centri per la disforia di genere continuano a mettere in pratica l’approccio affermativo di genere, a prescrivere bloccanti o ormoni dopo poche sedute nell’arco di soli sei mesi, sottovalutando fattori che possono aver avuto indotto il ragazzo o la ragazza a dare vita a una nuova identità transgender e rifugiarcisi, e tenendo in ben poca considerazione il punto di vista della famiglia.
Non esistono, o non emergono, dati, statistiche, evidenze, prove. Solo qualche frase presa qua e là dalle interviste, volta a tranquillizzare il grande pubblico che è tutto nelle mani di professionisti esperti.
Nel vuoto di indicazioni ufficiali da parte del Ministero della Salute, si fa largo il documento “Appropriatezza terapeutica nelle persone transgender” emanato nel giugno 2022 dall’Osservatorio italiano dedicato alla Medicina di Genere, l’autorità che ha il compito di monitorare lo stato delle cure di genere in Italia. All’interno del documento vengono istruiti “i professionisti che si occupano di salute transgender” a “supportare gli utenti nell’esplorare l’identità di genere e i cambiamenti corporei desiderati, al fine di garantire un approccio individualizzato durante il percorso di affermazione di genere. Tale approccio personalizzato deve essere applicato anche alla terapia ormonale di affermazione di genere, che deve essere disegnata sulla base dei bisogni individuali“.
In questo documento, i pazienti diventano utenti, in quanto la diversità di genere -con o senza disforia (ovvero sofferenza)- non è da considerare un disturbo, e la terapia ormonale di affermazione di genere deve essere garantita dal SSN sulla base dell’autodeterminazione della persona e disegnata sulla base dei bisogni individuali, al fine di rendere il corpo dell’individuo esteticamente conforme alla propria idea di sé. Se associata a una qualsiasi altra condizione, tale dinamica sarebbe impensabile.
Davanti al cortocircuito logico di un welfare che si accolla le spese sanitarie necessarie a fornire a persone -anche minorenni- in salute, e non per forza sofferenti, interventi chirurgici irreversibili e terapie che durano tutta la vita (e che comportano effetti collaterali e sterilità), non per curare un disturbo o alleviare una situazione di disagio (come è giusto che avvenga per le persone transessuali), bensì per permettere a chiunque di ottenere un corpo che corrisponda alla propria percezione di genere (che oltretutto sappiamo essere spesso mutevole o fluida), ci si aspetterebbe quanto meno un accurato monitoraggio dell’entità del fenomeno, ma soprattutto delle evidenze dei benefici sulla salute mentale e sul benessere delle persone trattate (che chi propone la transizione dà per scontati, ma che non sono stati dimostrati).
Invece quello che succede nei centri specialistici italiani rimane nascosto, i bambini e ragazzi continuano a essere indirizzati alla transizione medica sulla base di comportamenti “non conformi al genere” (ovvero stereotipicamente associati al sesso opposto) o di autodiagnosi suggerite dai social e incentivate dal gruppo di pari, e i genitori vengono privati del loro ruolo educativo, (mal)trattati come transfobici per il solo fatto di dare voce alle loro preoccupazioni.