Gambe, una foresta di giovani gambe
La mamma di una ragazza di 15 anni che da un anno si dichiara trans
Osservo soprattutto quelle delle ragazze: alcune depilate di fresco, altre non depilate affatto, alcune con ricrescita evidente. Osservando più attentamente, dagli shorts, alla radice delle cosce in qualcuna si notano segni di tagli, piccoli e regolari, tipici dell’autolesionismo. Sono un medico, so riconoscere certi tagli.
Ho accompagnato mia figlia ad un concerto e, sfinita dal caldo e dall’attesa, sono seduta per terra in mezzo a questa folla festante che scalpita per vedere i suoi idoli. Cerco in mezzo a tutti questi adolescenti i segni del disagio della crescita acuito da due anni di pandemia, e ripenso…
Esattamente un anno fa, mia figlia non ancora quindicenne, dopo qualche mese in cui aveva smesso di truccarsi e cominciato a vestirsi con felpe larghe -rigorosamente nere-, ci rivela di essere un maschio transgender, ben specificando che non si tratta di una fase passeggera e dichiarando che noi avremmo dovuto imparare ad accettarlo.
Noi l’abbracciamo, le diamo tutto il nostro amore e chiediamo tempo per capire.
Non credo di essere in grado di descrivere le mie sensazioni in quel momento ed in tanti altri giorni a venire… era come se costantemente qualcuno mi strappasse le viscere. A volte, mentre ero sola in auto e guidavo, mi fermavo per urlare con tutte le mie forze per sovrastare quel dolore, senza riuscirci.
Mi sono gettata nel web cercando confronto e conforto, ma ogni sito, ogni esperienza sembrava dire la stessa cosa: devi essere contento, oh genitore! Tuo figlio/a ha trovato il suo vero sé, e lo condivide con la famiglia come espressione di amore! Se non lo accetti la/o spingi al suicidio!
Una perla fra tutte (di un sedicente specialista del settore): “Molte difficoltà sarebbero evitabili facendo presente, a qualsiasi coppia di genitori in attesa di un figlio, che quel figlio potrebbe essere una persona LGBT. Quando un adolescente fa coming-out dichiarando ai genitori di essere una persona trans, lo fa dopo una riflessione molto lunga e profonda e non c’è alcun motivo di mettere in dubbio aprioristicamente ciò che riferisce. I dubbi, nella maggior parte dei casi, sono dei genitori, non del figlio o della figlia”.
Eppure, ogni fibra del mio essere urla: “Non è possibile! Non c’è mai stata traccia di tutto ciò durante l’infanzia!”. Mia figlia non ha mai dato alcun segnale di disforia di genere prima di adesso eppure mi sento completamente isolata e persa, mi chiedo dove ho sbagliato, cosa non ho capito. Provo anche un senso di vergogna nei confronti del resto del mondo, non per mia figlia ma per me come madre, per il disagio che non ho saputo cogliere. E’ una vertigine che mi porta in un buco nero spaventoso.
Io che sono una persona solare, attiva, decisionista, ora sono paralizzata, svuotata, piango.
Non riesco a dormire, nemmeno con gli ansiolitici. Di notte leggo di bloccanti della pubertà, cliniche specializzate, ormoni cross sex, chirurgie di riassegnazione del genere ma l’istinto mi dice che un’alternativa c’è, ci DEVE essere! A 15 anni non ancora compiuti, gli ultimi 2 dei quali passati in lock-down, mia figlia non sa nulla dell’amore e del sesso. La sua identità è in piena costruzione, come può pretendere di affermare cose di cui a malapena un adulto capisce la portata? E’ troppo presto!
Decidiamo di non chiamarla con il nome maschile che ha scelto, di non usare i pronomi maschili. Per non ferirla impariamo a fare lo slalom fra i generi e ad articolare le frasi in modo da non usare né maschile né femminile.
Un’amica psicologa che considero brava mi consiglia una psicoterapeuta di sua fiducia, specializzata in disforia di genere. Io e mio marito prendiamo appuntamento e al primo colloquio -solo con noi genitori- ci sentiamo rassicurati: non tutti arrivano alla transizione, molti con la psicoterapia accettano il loro corpo e ci convivono serenamente.
Capiamo istintivamente che è importante, dopo tanta vita virtuale, rimetterla a contatto con la realtà, e le facciamo fare tutto ciò che ci viene in mente: le chiedo di fare lavori di giardinaggio, impara a spedire i pacchi alle poste, accompagna il babbo nei suoi viaggi di lavoro, lo aiuta in incombenze tecniche, aiuta in un centro estivo… tutte attività che svolge volentieri.
Invece andare al mare, cosa che abbiamo sempre fatto con grande gioia (abitiamo a poca distanza) diventa difficile… non si depila, usa i calzoncini del fratello, porta il binder (per schiacciare e nascondere il seno), una maglietta e guai ad abbronzarsi!
Pian piano, anche grazie a mio marito, saldo come una roccia nell’ uragano, ritrovo me stessa: capisco che il mio dolore crea distanza con mia figlia.
Finalmente la vedo: una bambina spaurita, raggomitolata su sé stessa, nera e pelosa, un grumo di dolore. Come ho fatto a non accorgermene? Come ho fatto a non sentire il suo grido di disperazione? Scopro che anche lei si è tagliata, poi scopro anche disegni spaventosi, mutilazioni, mastectomie bilaterali, sangue… ma che madre sono? Ho sempre cercato di essere presente, di conoscere i suoi amici, i genitori degli amici…
Proprio durante la pandemia lei ha cambiato scuola e ha cambiato amici. A causa della pandemia non ho potuto conoscerli e ora che li incontro scopro che proprio loro le hanno fatto capire che è un maschio transgender. E’ lei stessa a confermarlo. Scegliamo di non allontanarla da loro, pensando che sarebbe peggio; pur dicendole apertamente che non ci piacciono, cerchiamo di dare normalità alla nostra vita familiare, cerchiamo di farle arrivare tutto l’amore possibile.
È un’estate difficile, ma facciamo comunque una vacanza in camper al mare; andiamo spessissimo a mangiare fuori per stare tutti insieme, perché non si rifugi nella sua camera appena mangiato. Nel frattempo, come ho sempre fatto, cerco di conoscere i genitori dei componenti del gruppetto e comincio a parlare con le mamme. Scopro che la storia si assomiglia per tutte: il nome, i pronomi, i vestiti larghi, il racconto rielaborato dell’infanzia, la sofferenza del crescere…
La psicologa di mia figlia vorrebbe che fossimo più morbidi (affermativi) e cerca di indirizzarci ad un’associazione di genitori con figli transgender. Decliniamo l’invito e cominciamo a nutrire dubbi sulla psicologa ma è difficile capire chi potrebbe essere un aiuto migliore e poi nostra figlia si trova bene. Sempre la psicologa ci consiglia di farci seguire come genitori da una collega, che dopo averci ascoltato premurosa per due volte -e aver sostenuto che si tratta probabilmente di una fase-, alla terza seduta ci dice ‘certo che se siete ancora legati all’idea che sia una femmina’. Arrivederci e grazie. Ci arrangiamo, ci sosteniamo a vicenda, le cose sembrano andare un po‘ meglio. Anche il fratello ventenne è perplesso, come noi.
Si avvicina la riapertura delle scuole, parlo con la coordinatrice di classe, le spiego la situazione e chiedo di chiamarla semplicemente per cognome; parlo anche con la psicologa di Istituto.
Mia figlia ha paura, è nervosa, teme che non rispettino i suoi pronomi. Io le sto vicino. Scopro che nella scuola che frequenta ci sono tanti altri casi simili (ben 15 ragazzine su 18 classi). Intanto ho letto, mi sono informata e una riflessione sull’impatto del contagio sociale è inevitabile.
Una sera in cui capisco che sta particolarmente male le parlo: le dico che anche noi stiamo male, ma che è il suo dolore quello che conta, perché noi siamo gli adulti, siamo i suoi genitori e abbiamo il compito di farcene carico. Per la prima e ultima volta la chiamo col suo nome maschile, finalmente piange e mi abbraccia. Veniamo a sapere, tramite la psicologa, che aveva intenzione di dire a tutta la famiglia riunita di volersi affidare ad una clinica di genere e invece, dopo quella sera, ha iniziato a pensare che sta correndo troppo, vuole rallentare.
Da quella volta, per molto tempo, spesso mentre guido le prendo la mano ed entrambe ce le stringiamo forte, senza dire una parola.
Nei disegni che spio di nascosto vedo anche la minaccia di una possibile anoressia, ma mi pare che mangi, quindi controllo che non vomiti. Per le vacanze di Natale arriva la certezza: è dimagrita (difficile da capire con strati di vestiti larghi), ha sempre freddo, non ha più il ciclo da due mesi. Le faccio capire che ho capito (scoprirò che nasconde i bocconi in tasca fingendo di averli mangiati) finché racconta tutto alla psicologa.
Cerco un appuntamento al centro di disturbi del comportamento alimentare e lo ottengo con grandissima difficoltà, perché le richieste nel periodo post pandemia sono aumentate a dismisura. Prendo due mesi di ferie per starle accanto. In attesa di essere vista al centro del disturbo alimentare la situazione precipita: salta molti pasti e chiede solo passato di verdure. Compro ricotta e omogeneizzati che spesso riesco a frullare in mezzo al passato, ma fa paura. Poi finalmente crolla.
Un giorno, per accompagnare il fratello dal dentista, la lascio sola 40 minuti e al ritorno scopro che sono spariti degli avanzi dal frigorifero. Il giorno dopo ci chiamano da scuola, non si sente bene. Penso ad uno svenimento, invece mi abbraccia e mi dice fra le lacrime che ha mangiato tutte le merendine che ha trovato al distributore automatico e ora si sente in colpa.
Da quel momento c’è una svolta: mi abbraccia, piange, chiede di dormire con me. Riprende a mangiare, concordiamo insieme il menu, non vuole sorprese, deve prepararsi psicologicamente. In poco tempo riprende peso e torna il ciclo, ma qualcosa in lei è cambiato.
Ci fa domande sulla vita, se siamo contenti di quello che siamo, se siamo diventati quello che volevamo. Le chiedo di aiutarmi a capirla: faccio fatica perché mi rendo conto che la mia testa ragiona in un modo diverso. Non è né bene né male, è solo diverso, la abbraccio.
Continuo a cercare un aiuto adeguato anche per me e finalmente dopo tanti tentativi trovo la persona giusta. È in un’altra città, ma andrei anche su Marte. Inizio un percorso per capire cosa è successo e soprattutto cosa posso fare, non ho mai creduto che la psicoterapia potesse fare per me ma mi ritrovo a guardare mia figlia e anche me stessa con nuovi occhi. Sono una persona con un carattere molto forte, creativa, spigliata, con un’energia anche fisica inconsueta e fatico a vedere la debolezza negli altri, anche nelle persone che amo. Sembra una cosa semplice, ma per me è una rivoluzione.
Cerco di ascoltare di più, di farle più spazio, di starle vicina senza ingombrare. La neuropsichiatra che la segue per il disturbo alimentare conferma che c’è tanto dolore, ma la disforia di genere è un sintomo non è il problema. Comincia ad assumere un antidepressivo.
La mia terapeuta vuole essere sicura che la rete di protezione che abbiamo tessuto sia la migliore possibile, così si mette in contatto con la psicologa che segue mia figlia e con la neuropsichiatra: i dubbi che avevamo sulla psicologa sono confermati, infatti non la ritiene la professionista giusta. Ne cercherà una di sua fiducia.
Mentre cerchiamo il modo migliore per parlare di questo cambiamento, la stessa settimana, mia figlia mi dice ‘mamma, ritengo che E. non sia la persona migliore per me: le voglio bene, mi ha aiutato, ma ora sento di avere bisogno di qualcuno che mi segua in maniera più completa’. Mantengo un aplomb inglese, ma dentro di me esulto. La settimana successiva lei stessa interrompe il percorso con la psicologa, la quale poi mi dirà che l’aver rinunciato ad un aiuto ’indirizzato’ (alla disforia di genere) è un grande segnale. Mi dirà anche che ora mia figlia non sente più la sua famiglia come un nemico.
‘Mamma, in quei 2 mesi in cui sei stata a casa mi hai salvato’. Mi ha detto.
Ora l’alimentazione è normale, ha un gruppetto di amiche con cui fa cose da ragazzina. Sa perfettamente che noi non l’affermiamo, ma il rapporto fra me e lei si sta rafforzando: è più profondo, anche se della sua identità di genere non parliamo.
Ora è più a suo agio col suo corpo, spesso esce senza binder, i capelli sono più lunghi, lo sguardo è spesso il suo. Ha chiesto tempo per capire. Il baratro in cui era caduta è ancora vicino, ma di sicuro è più leggera, si sente considerata, fa progetti. Noi siamo più sereni, anche se sappiamo bene che la strada è lunga e non sarà tutta in discesa.
Gambe, una foresta di giovani gambe. Ci sono anche quelle di mia figlia e delle sue amiche. Ci sono anche le mie. E questa sera saltiamo felici.